Siamo davanti a uno di quei rari casi in cui un pezzo potrebbe fermarsi al suo titolo, o quasi. Ma proviamo a dare un po’ di contesto: chiunque frequenti anche solo occasionalmente i tantissimi wine bar che propongono soprattutto vini naturali si è sicuramente accorto di quanto ci siano almeno tre specifiche categorie che i questi ultimi anni si sono imposte tra le preferenze dei consumatori, anche i più smaliziati.

I vini frizzanti a rifermentazione in bottiglia. I vini bianchi macerati sulle bucce, in inglese comunemente conosciuti come orange. I vini rossi cosiddetti glou-glou, vini cioè molto freschi, caratterizzati da un contenuto calore alcolico e da un profilo gustativo tutto giocato sulla croccantezza del loro frutto grazie magari a una macerazione semi-carbonica.

Tutti e tre rigorosamente con livelli molto bassi di anidride solforosa, ancora meglio se non aggiunta in alcuna fase della vinificazione o dell’imbottigliamento. Non un fenomeno solo italiano, anzi: basta fare un giro a Copenhagen come a Parigi, a Barcellona come a Roma per accorgersi quanto questo sia fenomeno globale.

Estetica funk

Ne ha scritto recentemente Simon J. Woolf sul suo blog, The Morning Claret, riportando a sua volta un pezzo uscito sull’ultimo numero di Noble Rot, magazine inglese che in questi anni ha contribuito a definire un’estetica non tanto e non solo del mondo dei vini naturali ma di tutto ciò che è funk, divertente, alternativo, nel vino. Una tendenza, ha sottolineato, di particolare rilievo che ha portato il vino naturale a essere percepito più come cliché stilistico che come costrutto filosofico.

Quando alcuni dei pionieri di questo movimento, soprattutto nella regione francese del Beaujolais, hanno iniziato un difficile percorso di vinificazione senza additivi, senza cioè i paracaduti tipici dell’enologia contemporanea, il loro obiettivo era quello di produrre un vino che fosse più espressivo e più onesto nei confronti dei consumatori rispetto alla grande massa di vini industriali prodotti nella zona, i cui rossi a basso prezzo ne avevano fatto crollare la reputazione.

Produttori che erano tra l’altro particolarmente scrupolosi, lontani dall’idea, formatasi nel tempo, che un vino naturale possa essere figlio di una certa sciatteria. Jules Chauvet, Marcel Lapierre, il più giovane Jacques Néauport.

Un approccio non diverso dai genitori del movimento del vino naturale italiano, da Giovanna Morganti de Le Trame al compianto “Stanko” Radikon, da Angiolino Maule de La Biancara a Fabrizio Nicolaini di Massa Vecchia e altri ancora.

Persone che a cavallo del millennio non guardavano solo al risultato del loro lavoro ma anche alla necessità di arrivarci senza accelerazioni e stabilizzazioni, recuperando il miglior equilibrio tra l’azione dell’uomo e i cicli della natura, in netto contrasto l’infinita replicabilità di quel “vino dell’enologo” allora così in voga.

Cortocircuito

Tuttavia, a distanza di circa vent’anni, si è arrivati a un cortocircuito. Da una parte uno dei cavalli di battaglia del movimento è stata (e in teoria è ancora) la lotta contro la standardizzazione del gusto, contro l’omologazione del vino. Lieviti selezionati, enzimi, stabilizzazioni, filtrazioni sterili: ingredienti perfetti per vini capaci di assomigliarsi moltissimo anche quando provenienti da zone diverse ancora prima che lontane.

Dall’altra una nuova generazione di vignaioli ha iniziato a produrre sempre più vini non solo distanti dalla tradizione del luogo ma anche incapaci di esprimere una qualche idea di diversità stilistica.

Vini leggeri, facili da bere e non senza un tocco di eccentricità che li caratterizzi in maniera univoca come naturali: magari un po’ di fondo, a volte una punta di acidità volatile, addirittura un accenno di “brett”, lievito che può causare composti aromatici indesiderati.

Tutte deviazioni che solo in pochi casi sono in grado di aggiungere qualcosa di virtuoso al vino. Non facile trovare un solo colpevole all’interno di un contesto che non fa altro che seguire logiche di mercato: se i consumatori cercano un tipo di vino ci saranno sempre produttori in grado di soddisfarne le esigenze.

Nel mezzo ristoratori, sommelier, anche giornalisti che non hanno fatto altro che assecondare questo scambio in un contesto che per quanto piccolo negli anni è cresciuto in maniera molto significativa, con tutto quello che questo ne consegue in termini di fatturati

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