Ieri, il ministero della Salute in collaborazione con i carabinieri dei Nas ha annunciato i risultati di una vasta campagna di sorveglianza per verificare il rispetto delle regole di contenimento dell’epidemia da Covid-19 a bordo dei mezzi pubblici di varie città. In tutto sono stati ispezionati 693 tra veicoli, stazioni, sale d’attesa e biglietterie e sono state riscontrate 65 irregolarità, come assenza di distributori di gel disinfettante, mancanza di segnali di distanziamento e presenza di un numero maggiore di persone rispetto alla capacità massima dei mezzi.

L’ispezione aveva anche lo scopo di identificare la presenza del virus sulle superfici di mezzi e stazioni. In tutto, sono stati eseguiti 756 tamponi superficiali e 32 hanno rivelato la presenza di materiale genetico ricollegabile al virus. È stata quest’ultima la notizia più ripresa dai giornali e quella comunicata con più preoccupazione. Ma davvero la presenza di virus sulle superfici dei mezzi pubblici ci deve spaventare?

Un caso su diecimila

Ammalarsi di Covid-19 dopo essere entrati in contatto con una superficie, in gergo “contagio da fomiti”, è un evento estremamente raro. Proprio questo lunedì, i Center for diseas control americani (la principale agenzia per la prevenzione degli Stati Uniti) hanno aggiornato le loro raccomandazioni sui contagi da superficie, affermando che le possibilità di contrarre la malattia in questa circostanza sono «basse», circa una su 10mila, secondo gli studi più recenti.

Ma anche questo è un calcolo per eccesso. Gli esperimenti si svolgono depositando delle particelle di virus su un oggetto e poi sfregando un tampone sulla sua superficie. In altre parole, gli scienziati fanno di tutto per assicurarsi che ci sia un passaggio di virus sul tampone, mentre di solito i nostri contatti con le superfici che ci circondano, in particolare quelle dei luoghi pubblici, sono accidentali, brevi e meno intensi.

A questo bisogna aggiungere che una volta che alcune particelle di virus si trovano, ad esempio, sulla nostra mano, devono poi essere trasferite nel naso o nella bocca per aver possibilità di iniziare l’infezione. Questo passaggio crea un’ulteriore “inefficienza” nella trasmissione, perché anche se ci tocchiamo il naso subito dopo aver toccato una superficie infetta, alcune particelle di virus resteranno sulle nostre dita. Meno particelle entrano nel nostro corpo, meno possibilità ci sono di contrarre l’infezione.

Guardate l’aria

Non si tratta di scoperte particolarmente sorprendenti: sono ormai mesi che la comunità scientifica internazionale avverte governi e autorità sanitarie che le superfici non sono uno dei principali veicoli di trasmissione del coronavirus. Lo scorso gennaio, ad esempio, la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato un editoriale intitolato «Il coronavirus è nell’aria, ma ci concentriamo ancora troppo sulle superfici».

Nell’articolo, gli autori sottolineavano ancora una volta la difficoltà di contagiarsi toccando una superficie infetta e la paragonavano all’enorme quantità di risorse che i governi di tutto il mondo spendono per disinfettare qualsiasi cosa (comprese, in alcuni casi, strade e marciapiedi).

Il problema invece, sostengono Nature e gran parte degli scienziati, è l’aria. Quando parliamo, tossiamo o starnutiamo emettiamo diversi tipi di particelle. Le più grandi, che cadono rapidamente al suolo, si chiamano “droplet” (goccioline). Le più piccole, che possono rimanere in aria per ore, si chiamano, collettivamente, aerosol.

Se una persona infetta rimane a lungo in un luogo chiuso senza mascherina, è probabile che nella stanza si accumulino quantità sempre maggiori di aerosol infetto, creando un ambiente perfetto per la diffusione del virus. In alcuni casi è stato dimostrato che l’aerosol ha contagiato persone a più di dieci metri di distanza da una persona infetta.

La difesa principale contro l’aerosol è la ventilazione. Un ricambio d’aria frequente impedisce l’accumulo di quantità pericolose di aerosol e riduce moltissimo le possibilità di contagiarsi. Nonostante questi avvertimenti, però, molti governi, compreso quello italiano, continuano a insistere sulla necessità di disinfettare tutte le superfici, ma non prestano sufficiente attenzione all’importanza di ventilare i luoghi chiusi.

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