Al Consiglio superiore della magistratura si respira aria pesante. I prossimi saranno giorni decisivi in vista del plenum fissato per il 26 aprile, in cui il vicepresidente, il laico eletto in quota Lega, Fabio Pinelli, rischia di essere messo in minoranza.

Lo scontro è di merito ma soprattutto di metodo e ad alimentarlo ci sarebbe un crescente fastidio rispetto all’approccio decisionista di Pinelli. O, per meglio dire, per quella che viene definita da una fonte interna al Consiglio una «concezione unilaterale del dialogo, lontana dalla collegialità di cui il Csm ha istituzionalmente bisogno per funzionare».

Il primo avvertimento

Le prime avvisaglie, in realtà, si erano registrate nella plenaria del 1° marzo. In quell’occasione a Pinelli era arrivato un segnale forte e su un tema considerato delicatissimo come il caso di Luca Palamara, l’ormai ex magistrato espulso dalla categoria dopo i fatti dell’hotel Champagne e la pubblicazione delle chat che avevano esposto i meccanismi del sistema correntizio all’interno della magistratura.

Al plenum Pinelli si era presentato con la proposta del Comitato di presidenza – composto da lui, dal procuratore generale di Cassazione, Luigi Salvato, e dall’allora primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio – di deliberare la non costituzione del Csm come parte civile nel processo di Perugia contro Palamara. Secondo il Comitato di presidenza, infatti, non erano ravvisabili i presupposti, poiché «non emerge dalla contestazione una ipotesi di illecita utilizzazione di specifici poteri e funzioni consiliari» da parte dell’ex magistrato.

La mossa aveva creato stupore e irritazione nel Consiglio. Il caso Palamara, che ha scosso la magistratura e che proprio questo Csm dovrebbe dimostrare di aver superato, è ancora questione delicatissima, soprattutto per l’impatto mediatico che continua ad avere. Impensabile, per questo, deliberare di non costituirsi parte civile. Risultato: al plenum è stato presentato un emendamento contrario, che quindi ha previsto la costituzione di parte civile di palazzo dei Marescialli, «riservandosi di precisare la quantificazione del danno in corso di causa».

Per paradosso le firme sotto il testo erano quelle degli altri consiglieri laici di centrodestra di cui anche Pinelli è espressione, con gli eletti in quota Fratelli d’Italia, Felice Giuffrè, Daniela Bianchini, Rosanna Natoli e Isabella Bertolini, insieme al laico in quota Cinque stelle, Michele Papa. Il voto è stato una sconfitta sonante per il consiglio di presidenza e in particolare per Pinelli, 23 a 5 e un astenuto. Uno strappo fortissimo.

Proprio questo avrebbe dovuto rappresentare un segnale per Pinelli di prestare maggiore ascolto, evitando di procedere con decisioni unilaterali e non condivise. Invece, il vicepresidente ha continuato sulla sua strada.

La cura Pinelli

A incrinare le dinamiche del plenum sarebbe stato poi l’eccesso di protagonismo del vicepresidente, che punterebbe ad accreditarsi sulla stampa come colui che sta rivoluzionando il lavoro del Consiglio attraverso un calendario serrato per macinare delibere in modo da abbattere l’arretrato come da auspicio espresso per lettera dal  presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Al fine di riorganizzare il lavoro è stato costituito un gruppo di studio, con un progetto di calendario che dovrebbe contemperare le esigenze di celerità con la fissazione di commissioni e plenum e il tempo necessario per stendere in modo appropriato le delibere e le motivazioni. Soprattutto visto che, in passato, molte decisioni del Csm sono state annullate dai giudici amministrativi.

Il progetto finale ha convinto la maggioranza dei consiglieri, ma non Pinelli, che continuerebbe a puntare verso un ancora maggiore efficientismo. Anche in questo caso, una «modalità unilaterale di decidere, con logica aziendalista e per nulla collegiale», è il parere diffuso. Del resto, è il ragionamento nel criticare la volontà del vicepresidente di fissare sedute senza soluzione di continuità, «è come se si chiedesse a un giudice di fissare udienza tutti i giorni, senza prevedere il tempo di scrivere le sentenze».

Lo scontro

Il risultato di questo ennesimo strappo tra vicepresidenza e consiglio rischia di tradursi in una sorta di sfiducia di fatto dell’operato di Pinelli nel prossimo plenum, fissato per il 26 aprile, in cui si discuterà dell’organizzazione per i prossimi mesi.

Una parte del consiglio è decisa a dare battaglia soprattutto per ragioni di metodo, di cui la questione organizzativa è solo una conseguenza. I prossimi giorni saranno determinanti nel capire se c’è spazio per una ricomposizione con concessioni reciproche, così da evitare uno scontro che in molti vorrebbero scongiurare per preservare l’immagine del consiglio.

Per questo le bocche rimangono cucite e il lavorio è costante. Del resto, la saldatura è inedita e circoscritta, tra parti che normalmente si trovano su posizioni lontane. La sensazione condivisa, però, è che sia un errore quello del vicepresidente di intestardirsi senza ascoltare suggerimenti, sfociando in arroccamenti di principio e perdendo di vista il vero obiettivo di questo Csm. Principalmente quello di far dimenticare il correntismo del passato, tornando a essere voce autorevole nel passaggio delicato dell’approvazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario e delle nuove circolari sugli uffici.

Come sempre a questo livello dello scontro, sono diversi gli interessi in campo e gli obiettivi indiretti. Per una parte che punterebbe alla mediazione, un’altra sarebbe più orientata ad andare fino in fondo nella contrapposizione.

Sottostante, infatti, è rimasta la tensione generata dall’elezione di Pinelli alla vicepresidenza, in un posto che inizialmente avrebbe dovuto essere riservato a Fratelli d’Italia. Il rischio concreto, allora, è che la seduta del 26 aprile diventi una ripetizione di quella sul caso Palamara, con una sconfessione del vicepresidente. Con tutte le conseguenze che questo potrebbe comportare.

© Riproduzione riservata