Per la campagna elettorale, Silvio Berlusconi rispolvera un suo storico cavallo di battaglia: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione sia di primo che di secondo grado. Ovvero il fatto che l’accusa non possa proporre ricorso, nel caso in cui l’imputato venga assolto in uno dei due gradi di giudizio perché «un cittadino ha diritto a non essere perseguitato per sempre», ha spiegato Berlusconi, che ha annunciato anche di candidarsi al collegio uninominale di Monza per il Senato.

Un proposito che viene da un politico imputato in più procure. Attualmente i processi a suo carico in corso sono infatti quattro: il Ruby ter di Milano, che è in attesa di sentenza di primo grado; c’è poi aperto il filone gemello di Roma (in un altro, a Siena è stato assolto in primo grado, ma la procura ha fatto, appunto, appello); infine il processo sulle escort a Bari e l’indagine per le stragi di mafia a Firenze.

L’inappellabilità è un antico pallino del Cavaliere, che quando era al governo nel 2006 aveva provato a introdurlo con la legge Pecorella. «Una legge che la Corte costituzionale ha già dichiarato illegittima», ha subito precisato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia. Il sindacato delle toghe non ha chiuso a revisioni del sistema dell’appello ma ha bocciato quella di Berlusconi.

La versione di FdI

La proposta ad ora non è stata commentata dalle altre forze di centrodestra. Proprio la giustizia, infatti, è uno dei settori su cui i tre partiti hanno visioni molto diverse e su cui il programma condiviso rimane volutamente molto generico, prevedendo la separazione delle carriere tra giudici e pm e la «riforma del Csm e del processo civile e penale», tutte e tre appena approvate dal governo Draghi.

Così, negli ampissimi margini previsti dall’accordo, ogni partito va per la sua strada. FI, appunto, spinge prioritariamente per la riforma del sistema dei ricorsi penali nel senso garantista più estensivo, sulla base del principio che una sentenza di condanna deve essere pronunciata oltre ogni ragionevole dubbio e già il fatto che un giudice abbia assolto rappresenta il dubbio necessario a fermare l’accusa.

L’ipotesi viene inserita anche nel programma della Lega che però, in modo quasi antitetico, prevede un irrigidimento delle misure cautelari, prevedendo meccanismi «più rigorosi per la loro applicazione» in casi di reati particolari e senza però specificare quali. Con un paradosso: prevede più misure cautelari, anche in carcere, e sulla base della sola ipotesi di reato indicata dalla procura.

Quindi prima del processo e di una sentenza che, se poi fosse di assoluzione, la stessa Lega vorrebbe rendere non appellabile. FdI, invece, sul punto prudentemente tace. Sia la Lega che FI, poi, prevedono l’abolizione della legge Severino che fece decadere da senatore proprio Berlusconi, per la quale era già stato tentato anche il referendum della giustizia. Proprio su questo la posizione di FdI è opposta: al referendum aveva dato indicazione di votare no all’abolizione della Severino e poi ha proposto una sua parziale revisione, risolvendo lo squilibrio tra parlamentari e amministratori locali con la decadenza in caso di sentenza passata in giudicato.

Il carcere

Altro punto non toccato dal programma quadro, su cui il centrodestra ha sensibilità molto diverse, è quello del carcere. Le posizioni più securitarie vengono da FdI, che è stata contraria a ogni ammorbidimento del cosiddetto carcere ostativo, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale. Nel 2018, poi, ha presentato un progetto di riforma costituzionale dell’articolo 27, che prevede il principio della funzione rieducativa del carcere e che FdI vorrebbe subordinare alla «pericolosità sociale del condannato» e «senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini». Tradotto: per alcuni detenuti il carcere potrebbe avere solo funzione contenitiva.

Sul fronte leghista l’orientamento è più temperato, si chiede una riforma carceraria che punti alla “vivibilità dei detenuti e alla sicurezza delle carceri” con una ricetta chiara: costruire più carceri e assumere più polizia penitenziaria. Esattamente la direzione opposta a quella immaginata dagli interventi sull’esecuzione delle pene voluta da Cartabia, che prevede strumenti alternativi alla detenzione per ridurre la pressione del sovraffollamento e per permettere il reinserimento sociale, e il cui delegato sul tema era il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, storico esponente azzurro.

L’interrogativo vero è che fine faranno le tre riforme Cartabia in caso di governo Meloni: sono state approvate con i voti di Lega e FI, a cui la ministra è venuta incontro su molti punti. Meloni vuole riscriverle anche se ancora non ha spiegato come, ma farlo significa sconfessare un anno e mezzo di lavoro dei suoi alleati.

 

 

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