In questo anno di riforme della giustizia, con quella penale e civile già approvate e quella dell’ordinamento giudiziario in discussione, a rimanere indietro sono sempre gli ultimi. Nonostante le rivolte del marzo 2020 e il caso drammatico di Santa Maria Capua Vetere, infatti, il problema delle carceri è rimasto in fondo alla lista degli interventi. Anche di questo governo, nonostante la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, da tempo ribadisca la necessità di intervenire per «dare risposte diverse».

Almeno una parte di queste risposte si trova in un testo sepolto in qualche cassetto della Camera: la riforma dell’ordinamento penitenziario, targata Pd e scritta dall’ex ministro Orlando ma accantonata non appena al suo posto si è insediato il grillino Alfonso Bonafede nel 2018.

Un articolato non perfetto ma che è stato il prodotto di tre anni di confronto, dopo gli stati generali del carcere e il lavoro approfondito della commissione Giostra.

Il Partito democratico ha provato a rilanciarla nel suo programma sulla giustizia presentato a metà 2021, ma senza arrivare al punto di spingere per una ricalendarizzazione del tema in tempi certi.

Per ora, pur con una ministra sensibile al tema e che da giudice e presidente della Corte costituzionale si è impegnata proprio sul principio della funzione rieducativa della pena, nulla si muove. Per ora c’è solo l’annuncio a settembre dell’istituzione di un gruppo di lavoro specifico «non per lavorare sulle grandi cose ma a cominciare da alcuni temi facendo rotolare una piccola palla di neve che spero diventi una valanga», ha sintentizzato Cartabia.

Bambini in carcere

L’unico sollievo, per questo Natale 2021, è la firma della ministra alla Carta dei diritti dei figli dei detenuti, con la promessa che «non si saranno più bambini in carcere». Il protocollo d'intesa tra il ministero della Giustizia, l'Agia e Bambinisenzasbarre OnlusOggi prevede che le autorità giudiziarie siano sensibilizzate e invitate ad una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute: colloqui, visite nei giorni compatibili con la scuola e supporto alla genitorialità. Inoltre, si punta a eliminare del tutto i minori che vivono in carcere al seguito di madri detenute. Ad oggi ci sono ancora 19 bambini piccolissimi, ma i numeri si stanno riducendo e a fine 2019 il dato era più del doppio.

Intanto, i dati fotografano un’emergenza che ormai è cronica e si riassume con due concetti: uno presente, con il sovraffollamento negli istituti; uno di futuro, con la pena che è solo tempo che scorre inutilmente e senza prospettive. Come dice Ornella Favero, direttrice e fondatrice di Ristretti Orizzonti, la rivista del carcere di Padova, «Il covid rischia di diventare l’ennesimo alibi per non fare nulla».

Sovraffollamento

Se nel 2020 la pressione del sovraffollamento era diminuita perché la pandemia aveva ridotto gli ingressi e si erano incentivate le misure alternative, la situazione è immediatamente ritornata alla normalità precedente.

Vale a dire, come certificano i dati del ministero della Giustizia, che a novembre di quest’anno i detenuti sono quasi 55.000 (54.593), presenti nei 189 istituti penitenziari distribuiti in tutto il paese. Di questi, 2.300 sono donne e 17.300 sono di cittadinanza straniera. Per regolamento i posti sarebbero solo 50.809, che però concretamente sono alcune migliaia in meno e – anche così – il distanziamento in cella sarebbe quasi impossibile. Il sovraffollamento, poi, è diverso da struttura a struttura: l’associazione Nessuno tocchi Caino, che si è riunita a congresso nel carcere di Opera il 18 dicembre, passerà capodanno nell’istituto penitenziario di Brescia, che con il 198 per cento di sovraffollamento è la struttura più problematica d’Italia da questo punto di vista. Per protestare contro la situazione, la presidente Rita Bernardini è in sciopero della fame dal 5 dicembre e continuerà almeno fino a fine anno.

Il dato del sovraffollamento spicca ancora di più se si considerano le prescrizioni per prevenire i contagi, soprattutto se si considera un dato: 8.837 di questi detenuti sono attualmente in carcere ma ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Vale a dire che non sono ancora stati condannati per alcun reato. A questi se ne aggiungono altri 7.700 che sono condannati ma non in via definitiva. Risultato: solo 37.705 detenuti nelle carceri italiane stanno scontando una pena definitiva.

Se da un lato le carceri sono sovraffollate, dall’altro manca il personale per gestirle. Sette carceri sono senza direttore, 27 direttori dirigono contemporaneamente due istituti. Gli agenti penitenziari hanno una pianta organica di 41.500 ma gli effettivi sono appena 32.200. Gli educatori dovrebbero essere 999, ma in realtà operano solo 710. Infine, il dato più eclatante: in tutta Italia, per quasi 55 mila detenuti, ci sono solo 206 magistrati di sorveglianza. Questa carenza di personale si riverbera su tutta la vita dei detenuti, ma in particolare si traduce in un dato: è lo Stato a far sì che chi entra in carcere debba lasciare fuori la speranza di una riabilitazione, di colloqui costanti con la famiglia e di ascolto da parte del tribunale per adattare la pena al suo percorso.

Morire in carcere

In carcere si muore, soprattutto nel 2021 e quest’anno il totale è di 128 decessi, di cui 52 suicidi e 76 morti in cella e non in ospedale.

Il Centro Studi di Ristretti Orizzonti pubblica dal 2000 il dossier “Morire in carcere”, raccogliendo da fonti ufficiali e non il numero e il motivo di decessi registrati negli istituti penitenziari del paese. Andando a vedere i decessi in carcere avvenuti negli ultimi anni, si nota come il Covid abbia fatto aumentare il numero di decessi per malattia nella popolazione incarcerata. Nel 2021 oltre il 30 per cento dei decessi è stato dichiarato per “malattia” e una percentuale cosi alta non si era mai registrata dal 2002.

Tra le cause di morte, però, una salta agli occhi. Analizzando il numero di suicidi in carcere, su 3.307 decessi registrati nel dossier dal 2002, 1.220 (il 36 per cento) sono classificati come suicidi. Approfondendo questo dato spiega indirettamente cosa significhi l’assenza di speranza dietro le sbarre di una cella: il numero di decessi per suicidio diminuisce con l’aumentare dell’età e questo andamento è conforme a quello della popolazione italiana complessiva. Tuttavia, a essere enormemente più alta è la probabilità di suicidio della popolazione più giovane in carcere. In media, infatti, un decesso su due di chi ha under 35 anni in carcere è causata da un suicidio. Nella popolazione complessiva invece è poco più di 1 su 10.

Dati drammatici ma che non sorprendono, perchè confermano quello che hanno dimostrato molti studi internazionali. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Lancet e che si basa sul risultato di 77 ricerche effettuate in 27 paesi del mondo rispetto a 35.351 suicidi in carcere, i fattori clinici più forti associati al suicidio sono non solo una storia passata di tentato suicidio e una diagnosi psichiatrica, ma anche fattori istituzionali come l’occupazione di una singola cellula e l’assenza di visite sociali.

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