A inquietare è la disinvolta arroganza istituzionale con cui si porta avanti questo intervento nel settore penale, utilizzando anche in modo improprio la decretazione d’urgenza e inaugurando una prassi che autorizza il governo a legiferare in luogo del parlamento
Nel decreto Sicurezza all’esame del parlamento per la conversione in legge ci sono aspetti politicamente censurabili e aspetti democraticamente preoccupanti.
Sotto il primo profilo, salvo pochissime eccezioni (ad esempio, in materia di custodia cautelare e di lavoro durante l’esecuzione penale), il puzzle normativo del provvedimento in esame ha un denominatore teleologico comune: la tutela della sicurezza. Estrarre dal cilindro legislativo figure di reato di nuovo conio; inasprire le pene per quelli già esistenti; criminalizzare anche la protesta non violenta dei soggetti ristretti in condizioni disumane; introdurre ulteriori ipotesi di ostatività alla fruizione delle alternative al carcere; ipertutelare le forze dell’ordine, sono note diverse dello stesso spartito.
Coerentemente con il mantra di questa maggioranza, che, complice una narrazione mediatica allarmistica e sensazionalistica, lucra elettoralmente sulle paure della gente, anche questo provvedimento per più profili distonico rispetto a uno Stato di diritto usa il passepartout della tutela della sicurezza pubblica; locuzione «messa lì a fare da parafulmine» – per dirla con André Gide – e incollata sul provvedimento «come certe etichette con la scritta “sciroppo” o “gazzosa” sulle bottiglie di whisky durante il proibizionismo». Una lenzuolata di novità normative ad alta illiberalità ed a bassa efficienza, espressione di quel demagogico giustizialismo, che altro non è se non il cugino del populismo che ha studiato legge.
A inquietare, invece, è la disinvolta arroganza istituzionale con cui si porta avanti questo intervento nel settore più incidente sulle libertà dei consociati.
Il governo si era correttamente incamminato lungo l’unica strada percorribile, quella cioè del disegno di legge sottoposto al confronto parlamentare. Poi, l’asperità del percorso, gli autorevoli giudizi critici ricevuti da autorità europee, da esperti delle Nazioni unite, dal Quirinale, dalla magistratura, dall’avvocatura e dall’accademia, nonché la maldissimulata contrarietà di una parte della compagine governativa a ogni modifica del provvedimento in questione che ne mitigasse la drasticità punitiva e discriminatoria, lo hanno indotto a escogitare un imbarazzante espediente: la scorciatoia del decreto legge.
La scorciatoia
C’era, tuttavia, l’ostacolo di una norma costituzionale fondativa della separazione dei poteri, in forza della quale il governo non può di propria iniziativa emanare decreti con valore di legge, «salvo casi straordinari di necessità e di urgenza» (articolo 77 della Costituzione).
Ostacolo scavalcato con disarmante disinvoltura: di colpo tutte le disparate novità sono state immotivatamente “battezzate”, nel preambolo giustificativo del decreto legge, come necessarie e urgenti; ad alcune viene anche attribuita la straordinaria necessità ed urgenza, con ciò implicitamente riconoscendo che le altre non sono nemmeno a parole rispettose della Costituzione. Se poi, spigolando tra le norme del decreto legge, ci si imbatte in disposizioni con cui il governo si autoassegna sessanta giorni (articolo 33) o dodici mesi (articolo 37) per emettere regolamenti volti a disciplinare la materia rispettivamente in oggetto, si avverte quasi un dileggio del precetto costituzionale.
Ove con questa operazione si inaugurasse una prassi che autorizza il governo a legiferare in luogo del parlamento, sol che si premuri di affermare tautologicamente l’esistenza della necessità e urgenza del proprio intervento, crollerebbe la colonna portante della nostra democrazia costituzionale: la separazione dei poteri.
Si dirà che non è il caso di drammatizzare; che si è trattato di un incidente di percorso. Ci auguriamo davvero che solo di questo si tratti. Purtroppo, però, l’episodio si accompagna ad altre manifestazioni di insofferenza rispetto alle garanzie dello Stato di diritto, quali ad esempio: la frequente delegittimazione della magistratura e di singoli magistrati quando vengono pronunciate sentenze non in linea con l’azione di governo; la pubblica stigmatizzazione e l’oscura intercettazione di giornalisti scomodi; il condizionamento del servizio pubblico televisivo; l’intimidazione nei confronti di chiunque manifesti dissenso, persino di coloro che si limitano a proclamare la fedeltà alla Costituzione nata dalla Resistenza.
Sono queste ed altre espressioni di intolleranza rispetto ad alcuni presidi di democrazia che suscitano inquietudine. Per questo, l’attuale usurpazione da parte del governo della funzione legislativa, tanto più in materia penale, preoccupa. Si intuisce il pericolo di una deriva autocratica. «Così come il cane – scriveva Sciascia – sente nella traccia del porcospino, prima ancora di avvistarlo, lo strazio degli aculei, e lamentosamente guaisce».
© Riproduzione riservata