Il Transatlantico, lungo corridoio antistante l’aula di Montecitorio, è una fiera delle vanità in cui rimbalzano le voci più varie e la giustizia è tornata argomento di conversazione. Gli occhi di tutti guardano in due direzioni: via Arenula e palazzo dei Marescialli.

Al ministero la partita si è chiusa sul nome di Fratelli d’Italia, l’ex magistrato Carlo Nordio. Ma la nomina dei sottosegretari si intreccia con la partita delicata del Consiglio superiore della magistratura, che attualmente funziona in regime di prorogatio.

Sull’organo di governo autonomo della magistratura, il centrosinistra e in particolare il Pd intende sfidare la maggioranza di governo e cercherà di riconquistare la vicepresidenza – come già fatto con l’uscente David Ermini – sfruttando le dinamiche interne.

La doppia ipotesi di Sisto

Il più nominato all’interno del centrodestra è l’attuale sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, avvocato barese di Forza Italia. Stimato dagli avvocati e dai magistrati, viene indicato sia per un ritorno al ministero della Giustizia, dove il suo partito reclama un posto di sottogoverno, sia come candidato vicepresidente del Csm. Senatore di carattere e competenza, Berlusconi lo vorrebbe al fianco di Nordio per presidiare un dicastero importante. Il diretto interessato – il cui braccio operativo è stato spesso provvidenziale anche per la ministra uscente Marta Cartabia nell’approvazione della riforma e nella stesura dei decreti attuativi – dovrebbe però essere disponibile a un secondo giro da sottosegretario dopo aver mancato il posto da ministro.

Per questo il Csm sarebbe una buona soluzione. In teoria tutto fila, in pratica ambienti di FI considerano quella della vicepresidenza a Sisto poco più che un’ipotesi di scuola, con scarsa probabilità di andare in porto. Il senatore, infatti, è considerato un politico fondamentale nella compagine azzurra a palazzo Madama. Costringerlo in una posizione pur prestigiosa ma esterna alla politica non convince.

Per questo, un altro nome possibile è quello di Pierantonio Zanettin, forte dell’esperienza pregressa al Csm nel quadriennio 2014-2018. Ma in queste ore il favorito sarebbe diventato Giuseppe Valentino, uno dei tre laici che dovrebbe essere eletto in quota Fratelli d’Italia. Penalista calabrese, ex senatore e presidente della fondazione Alleanza nazionale, sarebbe lui l’uomo in grado di ottenere il gradimento dei togati e raggiungere i 18 voti che normalmente servono per l’elezione del vicepresidente.

L’opzione Cartabia

Anche il Partito democratico si sta muovendo. Se prima del voto il nome più probabile era quello di Anna Rossomando, ora l’ipotesi di un suo passaggio a palazzo Marescialli è fuori discussione, visto che è stata eletta vicepresidente del Senato.

In ambienti dem si riflette sul fatto che, per mantenere la vicepresidenza grazie ai voti dei consiglieri togati, la strada più intelligente è quella di puntare su un nome tecnico, che possa piacere anche ai magistrati moderati. Per questo nella rosa di nomi la più accreditata è l’ex ministra Cartabia, che potrebbe trovarsi così a competere con il suo ex sottosegretario. Dopo l’esperienza a via Arenula l’ex presidente della Consulta dovrebbe tornare nella sua Milano, dove l’attende una cattedra all’università Bocconi. Ma starebbe facendo di tutto per rimanere a Roma.

Il Csm sarebbe un’ottima soluzione a patto che le venga garantita la possibilità di diventare vicepresidente. Difficilmente, infatti, una ministra uscente, da molti indicata come papabile per la presidente della Repubblica e del Consiglio, potrebbe accettare di essere una semplice “laica di minoranza”.

Il problema è che il Pd, al momento, non sembra in grado di darle queste rassicuraioni. Magistratura indipendente, la corrente che esprime 7 togati ed è la maggioranza relativa, ha definito «preoccupante» la riforma dell’ex ministra e starebbe già trattando con Meloni per sostenere Valentino.

Un problema per Fontana

Il numero magico per essere certi dell’elezione, come detto, è 18. I membri laici, tra cui viene scelto il vicepresidente sono dieci. La ripartizione dovrebbe essere di 3 posti per Fratelli d’Italia, che ritorna al Csm con i suoi eletti dopo che nel precedente Consiglio aveva passato la mano a Forza Italia; rispettivamente 2 a Lega e Forza Italia e probabilmente uno a testa per Pd; terzo polo e Movimento 5 stelle, anche se i dem, come gruppo più numeroso, potrebbero provare a puntare a due eletti.

Tra i venti togati, invece, il nuovo sistema elettorale misto ha prodotto una maggioranza incerta: 7 eletti di Magistratura indipendente; 6 di Area; 4 di Unicost; 2 di Magistratura democratica (di cui uno indipendente) e un indipendente e non collegato a nessun gruppo associativo. A questi si aggiungono i due membri di diritto: il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, vicino alle toghe progressiste, e il procuratore generale della Cassazione, Luigi Salvato, vicino a Unicost.

L’elezione dei consiglieri individuati dal parlamento avverrà nella prima seduta comune di Camera e Senato, che non potrà tenersi prima dell’inizio di dicembre. La legge, infatti, prevede almeno 40 giorni di preavviso per la convocazione dei corpi elettorali. In termini numerici la corrente centrista di Unicost è sicuramente determinante, ma il voto è segreto e dall’urna spesso sono uscite sorprese.

Per questo, contatti trasversali sono in corso. Tuttavia, proprio la riforma Cartabia rischia di trasformare il voto per i laici nella prima grana per il presidente della Camera, Lorenzo Fontana. Il radicale Riccardo Magi ha inviato una lettera in cui ricorda che spetta a Montecitorio dare applicazione alla norma della riforma che fissa principi di trasparenza nelle procedute di candidatura e selezione dei candidati laici, nel rispetto della parità di genere. Queste procedure vanno fissate prima del voto e Fontana deve farsene garante, ricorda Magi, «per ciò che attiene le procedure di candidatura», magari con la presentazione di un curriculum, e per «individuare un metodo di voto che garantisca la parità di genere nell’esito». Tradotto: i laici dovrebbero essere cinque uomini e cinque donne, e già questo pone una questione politica non secondaria che, insieme all’individuazione di norme di trasparenza, potrebbe ritardare ulteriormente la scelta.

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