Mi hanno chiesto come mai non abbia ancora scritto di NFTs (non-fungible tokens) e del caso dell’aggiudicazione, l’11 marzo scorso da Christie’s, di un enorme jpeg di 21.069 x 21.069 pixel corredato di NFTs, The First 5.000 days, di Beeple (all’anagrafe Mike Winkelmann, graphic designer 39enne americano) — un collage di 5000 opere singole realizzate, e fra l’altro anche pubblicate sui profili social del creatore, dal 1 maggio 2007 al 7 gennaio 2021  — , per l’equivalente (ricordiamoci infatti che si tratta sempre di aggiudicazioni in crypto valuta) di quasi 70 milioni di dollari.

La risposta è piuttosto semplice: perché in genere tenderei, proverei, piuttosto a scrivere di diritto dell’arte, spesso analizzata attraverso gli strumenti della finanza ed il punto di vista del diritto dei mercati finanziari, ed a ben guardare l’argomento non riguarda né l’una (né tantomeno il diritto dell’arte), né l’altra (né il fare denaro: sicuramente non per gli artisti e per il mondo dell’arte).

Gli NFTs sono infatti un semplice strumento, poco più che una firma, una forma di firma che rimpiazza i pdf; o, se vogliamo, una firma digitale che sta diventando piuttosto costosa, anche perché fra l’altro ben poco stabilmente collegata con l’oggetto che dovrebbe, per l’appunto, “firmare”.

Ma poiché è meglio non ripetere il caso dei tulipani (quelli che nel Seicento, in Olanda, dapprima vennero scambiati anche con terreni, bestiame e case, per quanto erano cresciuti di valore a causa della speculazione, per poi portare però ben presto alla rovina centinaia di olandesi) e, inoltre, l’argomento sta inesorabilmente attraendo attenzione da parte dell’arte e della finanza, è utile fornire qualche punto di vista più critico rispetto ai molti che stanno circolando in quest’ultimo periodo.

Basti dire che l’acquirente del collage di Beeple - di cui come ormai da “tradizione” per tutto ciò che ruota intorno alle crypto valute o alla blockchain, non conosciamo il vero nome, né il volto – è tal Metakovan, pseudonimo del fondatore e finanziatore di Metapurse, il più grande fondo di NFTs al mondo.

Cosa sappiamo

Andando con ordine, è necessario tenere a mente innanzitutto alcuni semplici dati di fatto.

Gli NFTs non sono opere d’arte, né tantomeno supporti artistici o una nuova tecnica artistica per gli artisti che lavorano, da più di mezzo secolo ormai, col digitale. Sono solo delle firme che possono essere associate a qualsiasi tipo di oggetto digitale: non dimentichiamo che il primo tweet pubblicato nel 2006 da Jack Dorsey, cofondatore e CEO di Twitter, è stato scambiato con tale sistema per l’equivalente di 2,9 milioni di dollari, e poco importa se la cifra sia stata poi devoluta in beneficenza. 

O ancora, che cifre milionarie siano state offerte per alcuni NBA Top Shot, che “cristallizzano e incorporano” alcuni epici momenti sportivi, che comunque si trovano, liberamente fruibili, anche su YouTube.

Oppure come molto di recente la tennista ventenne Oleksandra Oliynykova stia vendendo con un NFT la “proprietà a vita” di una sezione della sua spalla e braccio destro, e avrebbe comunque manifestato l’intenzione di “tokenizzarsi” in maniera più ampia, auspicando che siano sempre più gli atleti a cimentarsi con queste operazioni, e non le società sportive.

Non esiste pertanto una “NFT art”, che è davvero uno strano soprannome, o meglio una denominazione decisamente impropria, e che ha contribuito a creare confusione: all’arte ci si riferisce infatti con nomi che rinviano o al medium con cui viene realizzata o allo stile, ed il 99% della c.d. NFT art è semplicemente arte digitale, la stessa che conosciamo da decenni e che è ampiamente accolta nei musei e nelle collezioni da più di mezzo secolo.

Anche se a ben guardare, la maggior parte degli NFTs sono in realtà associati a banali illustrazioni digitali, e solo alcuni ad arte digitale seria: potremmo quindi semmai discutere quale oggetto digitale — in questa fase di estrema eccitazione del mercato, in cui si è persa forse un po’ di lucidità (oltre che tanta liquidità) — appartenga all’una o all’altra categoria.

Di conseguenza, le quotazioni milionarie delle ultime aste di arte digitale associata a degli NFTs non dicono nulla circa la qualità o il grado di innovazione di quell’arte. Le aste, online o in presenza che siano poco cambia, mirano a far sì che le persone paghino il più possibile per qualsiasi oggetto passi sul rostro (a volte, ovviamente, si tratta anche di ottima arte, ma a rigore non è strettamente necessario per il funzionamento dell’asta in sé).

Da quando è nato il mercato dell’arte, si è sempre attribuito un valore aggiunto alla firma di alcune opere (una stampa firmata; un dipinto della mano del “maestro”), che a ben guardare erano spesso quasi uguali ad altre: stessa stampa non firmata; una versione, non di rado migliore, dell’allievo del “maestro”. Ecco in questo contesto, gli NFTs sono solo un nuovo tipo di firma: ma questo, da solo, può onestamente giustificare certe quotazioni?

Nessun nuovo mercato

Gli NFTs, per farla breve, non hanno, e non possono avere, alcun impatto “disruptive” sulla nostra cultura artistica e visiva. Il cosiddetto “nuovo mercato dell’arte NFTs”  ha solo raggruppato un gruppo diverso di persone facoltose che stanno pagando somme ingenti (di crypto valute) per dell’arte che essi suppongono verrà pagata ancora di più in seguito, anche se abbiamo visto la fine che hanno fatto i tulipani.

Al solito, in questi contesti, non importa chi abbia creato tale arte, o se essa sia buona o cattiva, digitale o materiale. Qualche commentatore piuttosto caustico si è addirittura spinto oltre: affermando che l’enorme massa di crypto valuta investita per gli NFTs, non dimostra affatto il grande valore di questi ultimi, ma piuttosto la totale mancanza di valore della crypto valuta stessa.

È indubbio che in questo modo un gruppo di artisti che lavora col digitale (ma si vedrà nel prosieguo del discorso quanto esiguo sia questo gruppo), ora disponga di un mezzo per entrare in maniera più impattante in un certo “mercato” dell’arte: questo è un dato di fatto nel “mercato”, ma nulla ha a che fare con l’arte o il “mondo” dell’arte, poiché solo negli Stati Uniti il “mercato” e l’arte sono equiparati. Ci sono sempre stati più mercati: ora anche Beeple e altri hanno il loro, il che non è a ben guardare una grande (e neanche troppo bella) notizia;

Nnon dobbiamo pensare ingenuamente che l’arte digitale associata agli NFTS sia la perfetta espressione del nostro tempo, o forse la perfetta risposta dell’arte ai tempi di una pandemia in cui per avere visibilità il “mondo” dell’arte è migrato bruscamente (e in alcuni casi maldestramente) online. 

Gli NFTs sono, al contrario, “invisibili” e addirittura la prima opera con NFTs di Beeple che ha fatto parlare di sé, un video di 10 secondi acquistato per l’equivalente di 6,6 milioni di dollari, non l’ha mai visto nessuno. Giustamente: altrimenti dove starebbe la presunta scarsità/rarità/unicità che gli NFTs dovrebbero garantire?

Lo ha visto solo chi se lo è giudicato in un’asta sulla piattaforma Nifty Gateway (dapprima in realtà per l’equivalente di 67.000 dollari, nell’ottobre dello scorso anno, per poi, tempo pochi mesi, rivenderlo, non a caso, per la cifra di cui sopra), e questo quindi per dire come gli NFTs non aiutino in alcun modo la transizione del “mondo” dell’arte sul web, né la fruizione dell’arte online;

Infine, gli NFTs, oltre che una firma, possono essere nella migliore delle ipotesi un certificato di proprietà dell’opera associata, qualcosa quindi che assurge ad un funzione non troppo dissimile dalla fattura dell’acquisto dell’opera nella vita reale.

Non si tratta sicuramente di certificati di autenticità: a meno che l’opera non sia stata coniata anche on-chain. E non si tratta nemmeno di certificati di provenienza/tracciamento storico dell’opera cui l’NFT si riferisce: non si può infatti assicurare in alcun modo che il proprietario non rivenda solo l’opera di arte digitale, a qualcuno cui avere anche l’NFT non interessa affatto, per effetto sia della scissione tra metadati “on-chain” e opera/oggetto digitale che è e resta “off-chain”, sia per l’attuale indifferenza del copyright/diritto d’autore per queste questioni, di cui pure si accennerà, per cui si può tranquillamente rivendere l’opera/oggetto digitale senza NFT relativo.

Ciò posto: tentiamo ora qualche ulteriore approfondimento, anche tecnico.

Come sono fatti gli NFT

Per fare un NFT, deve essere “coniato” un file digitale (Jpeg, Gif o MP4 che sia): intendendo con “coniare”, un processo computazionale che va registrato sulla blockchain.

A ben guardare però un lavoro di c.d. crypto art a rigore sarebbe più corretto parlare di net art o new media art o arte digitale è un lavoro “ibrido”, e forse proprio in questo risiede il suo fascino, ma soprattutto la sia intrinseca potenzialità di confondere facilmente le idee: vi è, infatti, sicuramente un registro sulla blockchain che codifica la provenienza, e uno smart contract che definisce le condizioni del suo trasferimento.

Ma mentre sarebbe in teoria possibile, e doveroso per chiudere il cerchio, anche immagazzinare il medium in questo registro, di fatto quest’ultimo passaggio è oscenamente costoso: per cui di regola il token “on-chain” reindirizza semplicemente all’indirizzo di un file – che può facilmente contenere, come già si accennava, sia arte digitale, sia qualsiasi altra cosa (il più grande marketplace di NFTs è ad esempio Top Shot, dove si scambiano “momenti” memorabili degli NBA) —  , file che però si trova “off-chain”, su un diverso server, un sito di stoccaggio (noto tra gli addetti ai lavori come InterPlanetary File System, o più brevemente IPFS).

A questo punto, il display degli NFTs nel crypto portafoglio del proprietario, richiama semplicemente il file dall’IPFS. Ma in questo modo il lavoro dell’artista continua ad esistere in una forma (si direbbe) pre-token, come un file che può circolare liberamente in modo promiscuo, non-autenticato, come fanno tutti gli alti file.

Per cui non deve stupire come vi siano artisti, come Rosa Menkman, che hanno scoperto che i loro lavori, nonostante fossero muniti di NFT, erano stati scambiati e venduti senza il loro consenso, a volte anche sotto il loro stesso nome: come si vedrà meglio nel prosieguo, analizzando i rapporti tra IP e NFTs, tutto ciò è infatti perfettamente possibile, in quanto un NFT ha, perlomeno allo stato, rapporti molto incerti e sfumati con il copyright ed il diritto d’autore, e certe pratiche non sono affatto perseguibili, o meglio non lo sono in misura maggiore, solo grazie alla presenza di un NFT.

Detto in altre parole, gli NFTs finiscono per non contenere affatto l’oggetto (digitale) in sé, ma solo una sua descrizione, unitamente ai dati proprietari ed a tutto ciò che si può trovare nell’IPFS (qualcosa se vogliamo di assimilabile ad un semplice numero di inventario che identifica un particolare dipinto in una galleria o in un database): se quest’ultimo, per qualsiasi causa o motivo, venisse rimosso da internet, l’NFT verrebbe svuotato di contenuto e si resterebbe quindi con il nulla in mano.

In teoria, per ovviare a questo problema, si dovrebbe memorizzare “on chain” (quindi sulla blockchain) anche il medium, il contenuto digitale vero e proprio: ma provando a fare pochi calcoli si vede come questo passaggio sia insostenibile, essendo il costo della memorizzazione di 1 megabyte di dati su Ethereum, variabile attualmente (ma i valori di scambio su Ethereum cambiano ogni giorno, quindi prendiamoli come parametri approssimativi) tra i $ 5.800 e i $ 58.000 (se eseguito in modalità veloce).

Per intenderci ancora meglio: nel caso di The First 5.000 Days di Beeple stiamo parlando di circa 320 megabyte, il cui costo di immagazzinamento sulla blockchain varierebbe tra i $1.800.000 ed i $ 18.000.000 (ovviamente costi a parte rispetto a quelli di aggiudicazione all’asta). Senza contare che dal punto di vista ambientale, operazioni del genere sono ancora più pesanti, in quanto il costo dell’energia che il sistema dovrebbe impiegare per verificare costantemente la sua integrità, sarebbe più o meno pari al costo dell’energia necessaria per un Paese di medie dimensioni.

Quel che è certo, è che il valore delle crypto valute dipende in parte dal volume delle transazioni sulla blockchain: quindi ben vengano, per il mercato e per il fintech, operazioni come quella di The First 5.000 Days, che possono essere utili come operazioni di marketing delle crypto valute per attirare un’audience più vasta (posto che non precisamente tutti i beni possono essere scambiati con le medesime). 

Operazioni che il “mondo” dell’arte chiamerebbe però pittosto “flipping”, veloci passaggi di proprietà di beni, intesi però non come beni, oggetti d’arte, ma piuttosto come “collectibles” (un nome che allude maggiormente a cosa un consumatore può fare con il prodotto).

Nel mondo reale, un artista non ricaverebbe nulla da questi veloci scambi, ma anche in questo diverso contesto degli NFTs, le resale royalties che in teoria potrebbero essere programmate in uno smart contract, sono poco più che una chimera, in quanto ogni scambio comporta — per l’artista — di sicuro solo il pagamento di fees per il network Ethereum, e quindi ciò che viene ammantato come supporto per le arti, è in realtà soprattutto un supporto per il tech.

Anche l’affermazione secondo cui gli NFTs permetterebbero una decentralizzazione e una democratizzazione per il “mondo” dell’arte e soprattutto per gli artisti, è in parte troppo ottimistica: gli NFTs sono scambiabili essenzialmente su piattaforme che funzionano da marketplace, nelle quali hanno visibilità solo alcuni artisti, quelli più scambiati, che restano in vetta, mentre gli altri, in fondo, possono solo sperare di acquisire visibilità aumentando il loro traffico con gli scambi — ma in tal mondo finiscono solo per pagare le fees di cui sopra all’infrastruttura — , riproducendo in tal modo quella economia, decisamente accentrata e controllata, delle piattaforme, che è tutto fuorché democratica, come ci ha insegnato ormai Shoshana Zuboff nel suo saggio “Il capitalismo della sorveglianza”.

A ben guardare anche la presenza di una casa d’aste come Christie’s in una operazione come quella messa a segno con Beeple non è particolarmente incoraggiante, in un mondo, come quello perlomeno dei “crypto puristi”, che ideologicamente vorrebbe liberarsi da qualsiasi “gatekeeper” per l’accesso ai “mercati”.

Le app per autenticare l'arte

A questo punto, viene da chiedersi come mai altre applicazioni della blockchain per autenticare l’arte abbiano catalizzato meno attenzione (come nel caso di Verisart, Artory o Codex) o siano addirittura scomparse.

Vi è chi dice che tutte queste realtà mantenevano una separazione molto più chiara ed intellegibile tra l’opera d’arte fisica e la sua rappresentazione “on-chain”, mentre gli NFTs tendono a confondere maggiormente questa distinzione e questo confine (e quindi le idee) prestandosi così ad operazioni meno chiare, ma proprio per questo molto più eccitanti (molto “hipe” si direbbe, e secondo alcuni nel “mercato” dell’arte è solo l”hipe” che conta per far crescere le quotazioni).

Lo stesso tipo di opacità e di contorni molto sfumati si rileva quando proviamo a ricostruire i rapporti tra gli NFTs e la regolamentazione della proprietà intellettuale.

Partiamo dal precedente “storico” degli NFTs: nel maggio 2014 l’artista Kevin McCoy vendette una gif alla conferenza Rhizome’s Seven on Seven ad un “collezionista” pioniere, di nome Anil Dash, ed il trasferimento della proprietà venne riportato su una blockchain chiamata Namecoin: i metadati iscritti su quest’ultima, comprendevano un link alla licenza, un link al lavoro, una “hash” (una sorta di impronta digitale) del lavoro, e una semplice affermazione riguardante la proprietà, come parte del sistema Monegraph, cui si è già accennato. Dash pagò per tutto ciò, per questo primo esperimento di vendere un pezzo unico di lavoro digitale via blockchain, ben 4 dollari.

Passati altri quattro anni, nel 2018,  in un clima di maggiore euforia durante un’asta tenutasi in occasione di una conferenza sulle crypto valute al Knockdown Center del Queens/New York, un’opera d’arte digitale di Guile Gaspar, in cui però un portafoglio hardware era incorporato nel lavoro fisico che veniva così garantito da un token digitale, fu scambiata per 140.000  dollari, dando vita ad una categoia di “collectibles” chiamata CryptoKitty. Il token incorporato nel lavoro permetteva al CryptoKitty di essere scambiato, venduto e generato come un bene digitale nel CryptoKitties marketplace. Il lavoro manteneva così una sua fisicità, e le crypto valute avevano finalmente trovato qualcosa di significativo verso cui indirizzarsi.

Il mercato dei “collectibles” CryptoKittyi (a metà tra il gaming ed il trading) esplose, e dietro larga parte del suo successo vi era l’introduzione dell’ERC-721 Standard, che aveva definito per la prima volta gli elementi minimi che deve possedere lo smart contract-codice che viene eseguito sulla blockchain una volta che certe condizioni si sono verificate, per assicurarsi che si tratti di un collectible digitale pezzo unico, e che è uno standard che è ancora la base per gli NFTs su Ethereum.

Ma tale standard, che poteva ben funzionare per il trading dei CryptoKitties, è decisamente meno adatto per un’arte, una pratica digitale come quella così detta “nativa” (perché nasce sul digitale come fenomeno a sé), per la quale non funziona affatto l’idea di un file digitale da conservarsi immutato per sempre, in quanto, al contrario, è proprio la variabilità costante dei codici, e quindi il generare opere d’arte basate su software dinamici che le fanno variare di continuo, la cifra stilistica degli artisti nativi digitali che conducono le ricerche più interessanti e che vengono maggiormente riconosciuti, e acqusitati, da un pubblico colto di collezionisti di opera d’arte (e non di meri “collectibles”), che non sanno quindi che farsene degli NFTs.

Inoltre, la prima generazione di CryptoKitties era stata creata solo da alcuni sviluppatori, la sua autenticità era quindi garantita dall’App stessa, e tutte le immagini generate rimanevano quindi sotto il copyright dei programmatori in questione; inoltre, lo smart contract che governa il codice sorgente di tale app, fissa un limite prestabilito al numero di Kitties che gli sviluppatori possono rilasciare, motivo per cui gli utilizzatori possono stare certi che il mercato non ne verrà inondato.

La definizione di proprietà

Niente di tutto ciò, né a livello di limiti nella produzione/generazione né a livello di autenticità e provenienza, può essere applicato all’attuale “mercato” dell’arte degli NFTs: le definizione di proprietà non è infatti specificata nell’ERC-721 Standard stesso, ma si trova in una licenza separata che disciplina l’uso della App (ma solo della App CryptoKitty), che è una licenza piuttosto generosa, che consente di fare trading, vendere, regalare o disfarsi dell’NFT, ma non attribuisce nessun altro diritto o licenza. 

Pur costituendo un sicuro precedente per gli NFTs collegati a delle opere d’arte digitali, non risolve il principale dei problemi: non offre cioè una generale definizione di cosa vuol dire “essere il proprietario” di un oggetto digitale con NFT, né quali diritti restano invece al suo creatore; né tantomeno prevede un meccanismo di royalties a favore degli sviluppatori/artisti/creatori ad ogni rivendita.

In altre parole, una licenza di questo tipo, qualora fosse applicabile — e anche questo è un punto tutto da indagare (si tratta di un semplice precedente creato per la App che rilascia CryptoKitty) — anche al “mercato” dell’arte degli NFTs, lascerebbe comunqe irrisolte tutte le principali problematiche che vengono regolate dalla proprietà intellettuale.

A onor del vero, a eccezione dello standard ERC-721 di CryptoKitty, tutte le piattaforme in cui vengono scambiate NFTS prevedono delle forme di fees di rivendita a favore dei creatori: ma nel momento in cui l’NFT viene scambiato “off-chain” — attraverso un dealer o una casa d’asta — , gli artisti perdono qualsiasi garanzia di avere delle resale royalties, di cui avrebbero viceversa goduto se la transazione fosse avvenuta “on-chain”.

Motivo per il quale i più acuti commentatori dell’asta che ha visto protagonista l’oramai noto The First 5.000 days, di Beeple, sostengono come a rigore non si tratti nemmeno di un vero e proprio NFT: infatti quello che dovrebbe perlomeno distinguere la vendita di un dipinto e la vendita di un NFT è l’immediatezza e l’automaticità in quest’ultima, del pagamento del prezzo all’artista e del passaggio di proprietà al compratore (senza bisogno di scambi di fatture, assegni, spedizione dell’opera a pagamento avvenuto, e quant’altro caratterizzi le vendite d’arte IRL), tramite una discreta transazione sulla blockchain, istantaneamente documentata, con marcatura di data e ora, ed esaminabile da qualsiasi parte interessata; mentre i medesimi analisti, dopo 36 ore dall’aggiudicazione non potevano non notare come sulla blockcain non vi fosse alcuna transazione verificata che documentasse quei due/tre passaggi necessari a legittimare una vendita di un NFT, in quanto il token non era stato connesso alla piattaforma marketplace di riferimento e la proprietà non era ancora passata.

Il quadro incerto

In questo quadro così incerto e pieno di incognite, non dobbiamo quindi stupirci come molti artisti si stiano lamentando che i loro lavori digitali accompagnati da NFTs circolino più o meno liberamente; né tantomeno, come avvenuto molto di recente, che un collettivo che si è dato il nome provocatorio di Global Art Museum — e che afferma giustamente di stare conducendo un “esperimento sociale” — stia coniando NFTs di opere contenute in musei come il Rijksmuseum di Amsterdam, scambiandoli poi su un marketplace di NFTs chiamato OpenSea, senza nemmeno chiedere il consenso ai musei coinvolti (proprio perché a rigore con tale procedimento non vi è — ancora — alcuna violazione di copyright).

Né, infine, per commentare un’asta che si sta svolgendo proprio in questi giorni, che i confini delle applicazioni degli NFTs stiano diventando sempre più nebulosi, al punto che i discendenti di Baranoff-Rossiné, un artista modernista russo, di cui posseggono ancora un’ampia collezione di lavori, stiano prendendo in mano — dopo essersi per anni affidati alle case d’asta — anche il suo mercato, proprio utilizzando gli NFTs.

Stanno infatti mandando all’asta un dipinto astratto del 1925, rimasto sempre nella famiglia sin dalla sua creazione, collegandolo proprio ad un NFT, in un marketplace online chiamato Mintable. Ma vi è di più: anche nove raffigurazioni digitali di altri dipinti di Baranoff-Rossiné —  di cui la famiglia ovviamente conserverà la proprietà degli originali — saranno venduti con degli NFTs in tre aste di edizioni limitate iniziate lo scorso 25 marzo, e un appartenente della famiglia ha giustificato l’operazione descrivendola come un mezzo per mostrare i lavori del suo antenato ad un più ampio e diverso pubblico.  

E anche se potrebbe sembrare una distinzione semantica o il sintomo di un totale disprezzo per qualsiasi merito artistico o estetico, il fondatore e CEO di Mintable, Zach Burks ha specificato, a proposito dell’asta Baranoff-Rossiné, come: «This is an auction for an NFT that happens to come with a painting. It’s not a painting that’s auctioned that comes with [an] NFT». 

La vera domanda però potrebbe arrivare ad essere addirittura un’altra: ad un certo punto tutte le opere d’arte associate ad un NFT dovrebbero reclamare un plus o un premium? O non dovrebbe essere piuttosto il contrario dal punto di vista del “mondo” dell’arte? O si dovrebbe comunque cominciare con le opere d’arte e poi utilizzare —alla meglio e per gli scopi più vari — la tecnologia sottostante come uno strumento?

Per chi conosce il funzionamento del “mondo” (non del “mercato” ) dell’arte, in cui spesso il farsi rilasciare un’autentica, o comunque qualsiasi altra documentazione che dovrebbe accompagnare, a seconda dei casi, un’opera d’arte, sia spesso un’impresa — perché molti ne disconoscono o poco comprendono il valore, e soprattutto quanto tutta una certa documentazione (compresi i contratti) possa fare la differenza anche in termini di prevenzione di problemi futuri  — , tutto questa eccitazione per qualcosa, come gli NFTs, che sono poco più che un PDF che accompagna l’opera, è qualcosa di straordinario e involontariamente incoraggiante: forse — e lo si dice ovviamente come provocazione —  sarà finalmente più chiaro quanto valore abbia la documentazione (inclusi i contratti, che siano smart o meno) che dovrebbe sempre, e dico sempre, accompagnare un’opera d’arte? 

Di certo, e nonostante gli artisti o presunti tali che più si stanno cimentando in questo campo tentino di forzare concettualmente il sistema sostenendo come il token sia l’opera d’arte, che si acquisterebbe semplicemente il token, e che l’immagine digitale sia piuttosto l’aspetto del token (mentre tutto ciò che di più “fisico” si cerchi di immettere nel complesso del procedimento, sia del tutto secondario e forse anche involontario), tutto quello che sta accadendo è intellettualmente e socialmente eccitante.

Intellettualmente non solo ovviamente dal punto di vista di un giurista, ma per quello che potrà accadere quando artisti comunque usciti dai Master di fine arts e che hanno finora preso parte alla net art o alla scena dei new media, si mescoleranno sempre più con artisti che hanno un background totalmente differente (come i più che si stanno cimentando con gli NFTs), e che spesso sono self-trained artists.

Socialmente perché quello che alla fine è molto rassicurante è la presenza di network come The Mint Fund, che stanno coprendo le fees necessarie agli artisti per coniare i loro primi token, suggerendoci così che si stanno costruendo dei legami sociali nella vita reale che sono ben più forti della blockchain.

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