«Il pubblico ministero è il magistrato che ha una particolare visibilità non solo perchè, in toga, nell’aula del processo, in tribunale o in corte d’assise, sostiene l’accusa e si confronta con l’avvocato, ma soprattutto perchè è il primo attore, in ordine di tempo, della giustizia penale».

Inizia così il saggio Pubblico ministero, un protagonista controverso della giustizia (Cortina editore, 2024) firmato dall’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, che si pone l’obiettivo di definire il ruolo del pubblico ministero nel processo con finalità quasi didattica per chi di giustizia non si sia occupato di professione, ma soprattutto di inserirlo – con meriti e demeriti – in un contesto storico e sociale molto più ampio.

Bruti Liberati, che è stato protagonista di una lunga stagione giudiziaria in una procura centrale come è stata quella di Milano, mette in luce un elemento sopra tutti: dietro una funzione ci sono uomini e donne, che si muovono in contesti più o meno difficili e si assumono scelte più o meno condivise. In questo, infatti, sta la tensione di chi interpreta la pubblica accusa, tra obbligo di essere “parte imparziale” e ruolo di accusatore. Per questo, scrive l’autore, «la delicata posizione del pm rende essenziale che abbia sempre come riferimento il valore del metodo del contraddittorio e il rispetto del ruolo del difensore».

una lunga marcia a ostacoli

La figura del pubblico ministero italiano, infatti, è sin da subito controversa nella storia giudiziaria del paese e si evolve con la piena attuazione della Costituzione, che è stata lunga e accidentata.

Per i primi due decenni della repubblica, il pubblico ministero svolge un ruolo di retroguardia, permanendo «la cultura di un pm naturalmente sensibile alle esigenze di legge e ordine, alle istanze di autorità piuttosto che a quelle di libertà». Per argomentarlo, Bruti Liberati snocciola una serie di casi giudiziari noti – il sequestro del giornalino scolastico La Zanzara – e meno noti, come il sequestro dell’Arialda, una commedia di Giovanni Tesori messa in scena a Milano.

In questo il saggio è una miniera di casi giudiziari, allineati in modo da sviluppare come il ruolo e la postura del pubblico ministero sia cambiata e sia stata influenzata anche da connotati geografici, soprattutto negli anni Settanta delle inchieste sul terrorismo. Non a caso, proprio in quegli anni, il costituzionalista Stefano Rodotà indicò la procura di Roma come “porto delle nebbie” per l’inerzia davanti agli scandali della politica e per la capacità di insabbiare indagini cominciate in altre procure.

Non a caso le inchieste sulla strategia della tensione «iniziano in sedi decentrate: a Torino sul “golpe bianco Sogno” da parte del giudice istruttore Luciano Violante e a Padova sull’organizzazione Rosa dei venti, da parte del giudice istruttore Giovanni Tamburino».

Nella fitta storia del Novecento, il vero protagonismo dei pm nasce con le grandi inchieste di terrorismo e di mafia, ottenendo forte legittimazione anche nella pubblica opinione. Un nuovo punto di svolta nel ruolo, però, avviene con l’inchiesta contro la P2 del 1981, condotta dai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo. Così nasce una ulteriore declinazione: quella del pm che sposta l’attenzione sulla corruzione, la criminalità economica e finanziaria.

Fino all’inevitabile capitolo sulla controversa stagione di Mani Pulite che, secondo Bruti Liberati, ha mostrato «l’ambiguità dell’atteggiamento della società civile: sostiene entusiasticamente Di Pietro agli esordi e si oppone come parte sana del paese alla società politica corrotta, ma è anche la società civile della cultura della raccomandazione e della scorciatoia al limite delle regole, dell’evasione fiscale diffusa, del deficit del senso dello Stato, sensibile solo a parole alla questione morale».

Con un aneddoto quasi dimenticato ma emblematico dei toni anche politici in quella fase: la battuta dell’allora ministro della Giustizia Alfredo Bondi che - in piena inchiesta, guadagnandosi anche una stizzita replica dell’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli - rilanciò la battuta per cui il monito di ogni avvocato ad un figlio svogliato fosse: «Studia ragazzo mio, o finirai pubblico ministero!».

Anche su questo l’autore prende posizione, parlando di «taluni eccessi, errori, protagonismi e tragiche vicende personali», ma anche «del doveroso intervento repressivo penale di fronte a un vero proprio sistema di devastazione della legalità». Che ha anche generato il germe di una comunicazione giudiziaria i cui aspetti problematici sono un tema centrale di dibattito anche oggi.

Le prese di posizione

Il saggio, che ha il pregio di non cedere mai al didascalismo, è anche un testo personale con prese di posizione chiare e potenzialmente controverse. L’ex procuratore capo, infatti, presenta la sua visione sulle questioni impellenti del dibattito odierno, dalla riforma Cartabia a quella del Csm, dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, fino al ruolo della comunicazione per le procure e alla revisione della geografia giudiziaria.

Il passaggio forse più interessante, tuttavia, riguarda il dialogo a distanza che Bruti Liberati ingaggia con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che sin dall’inizio del suo mandato si è assunto il mandato di «dare attuazione al modello di processo accusatorio», individuato dal codice Vassalli, di cui «la separazione delle carriere è consustanziale». 

Rispetto a questo Bruti Liberati fa notare che «i modelli puri, se mai esistiti, oggi non sono riscontrabili nella realtà neppure nei libri» e anche il «rito anglosassone» a cui spesso fa riferimento Nordio come modello «è piuttosto ampio e variegato».

Quella del pm, infatti, è l’istituzione più diversificata in Europa che «del tutto evidente l’estrema difficoltà di individuare un modello in Europa e ancor di più fuori dall’Europa».

Dopo una dettagliata analisi comparatistica, dunque, la conclusione è che «la caratteristica essenziale di un processo di tipo accusatorio è la regola del contraddittorio come metodo per l’acquisizione della prova davanti al giudice» e questa regola oggi è stabilita dalla Costituzione, mostrando come «il nostro ordinamento giudiziario che prevede un’unica carriera tra giudici e pm sia pienamente compatibile con l’essenza del processo di tipo accusatorio».

La conclusione del saggio allarga l’orizzonte in una chiave più ampia: l’obiettivo futuro deve essere quello della costruzione di una comune cultura tra tutti gli esponenti delle professioni giuridiche.

La nota finale, infine, è forse la provocazione più interessante a chi – soprattutto in anni recenti e dopo la crisi di credibilità pubblica che ha colpito la magistratura – accusa il pm di aver dimenticato il suo ruolo di garanzia in un eccesso di protagonismo individuale. 

Secondo Bruti Liberati, infatti, al pm vengono concesse dall’opinione pubblica molte meno scusanti di quelle che invece ha il giudice: «Consideriamo normale il fatto che un secondo giudice, quello d’appello, possa smentire la decisione di quello di primo grado», «accettiamo come garanzia che si certifichi che un giudice ha sbagliato e un altro lo corregga, ma spesso pretendiamo che chi, come il pm, percorre il primo tratto di questo delicato tragitto, indirizzi subito il processo sulla via giusta».

 

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