Nei suoi quaranta minuti di discorso al parlamento in seduta comune, il neo-rieletto presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sferzato uno dei nervi scoperti del governo: la giustizia e la riforma della magistratura.

In parole apparentemente rivolte in modo generico all’aula di Montecitorio, il presidente ha dato una stoccata precisa all’Esecutivo e in particolare, secondo fonti ministeriali, al presidente del Consiglio Mario Draghi.

«Un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia», ha detto Mattarella, aggiungendo che «è indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria».

Il riferimento è al disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, terzo pilastro sulla giustizia inserito nel Pnrr e ultimo tassello mancante, dopo l’approvazione delle riforme civile e penale. Anche questo ddl doveva essere pronto e approvato entro la fine dell’anno ma ha subito continui slittamenti: se le altre due riforme erano determinanti per garantirsi i fondi europei a fronte di una velocizzazione dei processi civile e penale, la riforma della magistratura ha un determinante peso politico ma inferiore portata pratica.

Lo stesso Mattarella – che da presidente della Repubblica ha presieduto il Csm nelle fasi più buie degli scandali, dal caso Palamara alla loggia Ungheria, – ha sottolineato in un intervento dei mesi scorsi come la riforma debba essere approvata entro il luglio 2022. La data, infatti, coincide con il rinnovo del Csm e la rielezione dei suoi membri e uno dei punti più delicati del ddl è la legge elettorale che disciplina l’elezione dei membri togati. 

Eppure, anche questa scadenza sembra ormai difficilmente rispettabile. Un deputato della commissione Giustizia appartenente alla maggioranza ha spiegato: «I tempi per l’approvazione nelle due letture di fatto già non ci sono: prima di marzo è impossibile che il testo arrivi in aula e già allora sarà tardi». Per ora, l’unica certezza è che la commissione Giustizia ha fissato all’ordine del giorno il dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario a partire dal 14 febbraio. 

Il limbo

La piramide di responsabilità, infatti, arriva fino a Draghi e Mattarella ne è al corrente. Lì, infatti, è da cercare la ragione del fatto che il ddl non abbia ancora cominciato il suo iter di commissione vero e proprio. Il testo base in commissione è quello del governo precedente e va emendato con il maxi emendamento del ministero della Giustizia, che la guardasigilli Marta Cartabia ha chiuso e depositato a palazzo Chigi pochi giorni prima di Natale, dopo averlo discusso informalmente con la maggioranza, la magistratura e l’avvocatura.

Però dal palazzo non è più uscito: doveva approdare in consiglio dei ministri a gennaio ma non è successo e il silenzio della ministra sul punto, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario è stato eloquente. Si è limitata a dire che la riforma è «ineludibile davvero». Tradotto: lo stop non viene certo da via Arenula.

Ora, però, il reiterato monito del presidente della Repubblica potrebbe sortire l’effetto. Con una conseguenza scontata, però: la riforma è molto divisiva per la maggioranza, con il centrodestra schierato per il sorteggio dei membri del Csm. La facile previsione è che le tensioni dentro il governo esplodano- soprattutto ora che la Lega sembra pronta ad alzare i toni dello scontro - e ricomporle non sarà facile. Soprattutto se la riforma deve correre per essere approvata entro i tempi previsti. 

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