Nessuna polemica, ma un allarme rivolto tanto al parlamento quanto al ministero della Giustizia: parlare di intercettazioni nella loro accezione tradizionale ormai non ha più senso, perchè il mondo e soprattutto la tecnologia è già andata molto più avanti e sono ben altri gli strumenti di indagine senza garanzie.

L’intervento del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, in audizione in commissione Antimafia, è una scossa che tenta di spostare il baricentro del dibattito pubblico sulle intercettazioni, da «sottrarre ai furori polemici ma anche alle semplificazioni grossolane». 

Mancano infrastrutture

L’attuale stato delle infrastrutture per le intercettazioni «sia dal punto di vista dell’assetto architettonico che gestionale» non sono adatti, è la prima constatazione di Melillo. In altre parole, la macchina della giustizia ha un sistema vecchio e malandato, che rischia di cedere. Per questo la procura nazionale antimafia e tutti i distretti hanno mandato una nota a via Arenula per sottolineare «la gravità dello stato delle infrastrutture che reggono il sistema delle intercettazioni e l'urgenza di decisi interventi». 

Con una conseguenza: acuire la sensazione che, come diceva Giovanni Falcone, le mafie «abbiano sempre una lunghezza di vantaggio su di noi». Soprattutto perché i nuovi campi in cui si spingono le moderne organizzazioni criminali sono il dark web e le criptovalute, mentre il dibattito politico si concentra ancora sulle intercettazioni telefoniche.

Nessuna garanzia

«Le garanzie e l’efficienza devono crescere insieme, senza un arretramento sul ricorso alle intercettazioni, personalmente non ne conosco di inutili», ha aggiunto Melillo, con una specificazione che suona come una risposta a distanza alle posizioni del ministro Carlo Nordio, che più volte in passato ha ripetuto che «i mafiosi non parlano al telefono» e che una parte dei 200 milioni l’anno vengono spesi «per intercettazioni inutili sui cittadini normali», mentre andrebbero spostate «sulle indagini sulla grande criminalità organizzata».

Con una specificazione in più da parte di Melillo: non sono inutili «perché disposte da un giudice con un provvedimento e per reati gravi». Garanzia che invece non è estesa a tutta una serie di atti d’indagine su strumenti informatici, che sono ancora più invasivi delle intercettazioni ma che invece non sono ugualmente tutelati: uno su tutti, l’acquisizione dello smartphone, che contiene tutte le informazioni più sensibili riguardo al proprietario, dai suoi spostamenti, ai messaggi e fotografie e email.

E questa acquisizione, che rientra nella disciplina del sequestro, «avviene senza alcuna proporzionalità, visto che non è prevista una soglia di gravità minima del reato né un controllo preventivo del giudice».

Tradotto: esistono strumenti ben più invasivi nelle mani degli inquirenti e che oggi non offrono alcuna garanzia per gli indagati, perché non ricadono nella nozione classica di intercettazioni. Le intercettazioni telefoniche, infatti, sono controllate attraverso l’archivio delle intercettazioni in cui vengono conservate. Un cellulare sequestrato no, anche se contiene informazioni potenzialmente ancora più invasive anche della sfera personale dei terzi.

Il contesto politico

Eppure, le intercettazioni e la loro rimodulazione sono uno dei cavalli di battaglia politici di Nordio. Il ministro ha promesso in autunno un nuovo ddl che riformi in modo organico la materia, che nel decreto legge presentato la scorsa settimana viene presa in considerazione solo sulla questione della loro pubblicazione.

La questione – ridotta ormai a intercettazioni sì o no - continua ad animare lo scontro tra toghe e ministero e ha toccato il suo apice in gennaio, quando Nordio in audizione alla Camera ha invitato il parlamento a «non essere supino e acquiescente alle posizioni dei pm antimafia», che si erano espressi contro la loro limitazione ipotizzata dal ministro, anche se con la specificazione di non riferirla ai reati di mafia e terrorismo.

Lontano dalle schermaglie in favore di telecamere, tuttavia, esiste un lavorio nascosto, a partire dal tavolo di lavoro voluto dalla presidenza del Consiglio dei ministri e di cui fa parte anche la procura nazionale antimafia.

Anche il ministro Nordio, nella parte meno ripresa del suo intervento a Taormina in cui portava avanti il botta e risposta con l’Associazione nazionale magistrati, ha ammesso che «siamo indietro di anni sulle tecnologie che usano le grandi organizzazioni criminali; lo stesso trojan è superatissimo. La criminalità organizzata usa dei sistemi che oggi non riusciamo a intercettare perché non abbiamo i soldi per farlo».

Una visione della realtà non lontana da quella di Melillo, dunque. Eppure la priorità del ministero sembra rimanere quella della riforma delle intercettazioni tradizionali - riducendone il numero e quindi i costi e limitandone la diffusione sulla stampa, che pure con la riforma Orlando del 2020 si è decisamente ridotta - con l’effetto di trasformarle in un totem dal sicuro appeal mediatico.

Abbattuto il quale, però, il sistema giustizia sarà ancora di molte lunghezze indietro sia alle organizzazioni criminali che si muovono nel cyberspazio, sia rispetto alle aspirazioni di garanzia della sfera personale dei cittadini.

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