In Parlamento è iniziato il percorso del disegno di legge (ddl) voluto dal guardasigilli Carlo Nordio, che interviene su alcune norme del codice penale e di procedura penale. È una “giustizia giusta” quella che emerge dalla riforma? Il ddl è oggetto di osservazioni di segno contrapposto, che vale la pena esporre per farsi un’idea più fondata.

Abuso d’ufficio

Il ddl abroga il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). La motivazione principale risiede nel fatto che si tratta di un reato inefficace, come dimostrano le migliaia di iscrizioni nel registro degli indagati finite nel nulla: nel 2021, 27 condanne su 5.400 processi. Inoltre, questo reato indurrebbe nei pubblici funzionari la cosiddetta paura della firma, quindi l’inazione, per l’elevato rischio di ricevere un'accusa a causa dell’indeterminatezza della fattispecie, idonea a ricomprendere le condotte più varie. E le conseguenze personali, professionali, reputazionali ed economiche di una tale accusa possono travolgere chi ne è oggetto.

A queste motivazioni viene contrapposta la circostanza che l’eliminazione dell’abuso d’ufficio creerebbe “zone franche” nell'ordinamento, legittimando in qualche modo azioni illecite del pubblico ufficiale. Ma condotte di abuso della funzione sono già punite attraverso i reati contro la pubblica amministrazione: nella corruzione, il pubblico ufficiale abusa della sua funzione, facendone oggetto di “commercio” illecito; nella concussione, ne abusa attraverso una condotta sostanzialmente estorsiva; nel peculato, mediante l’appropriazione di beni pubblici (Caiazza). Per altro verso, condotte di mala amministrazione che non rientrino in nessuno dei reati contro la P.A. restano comunque sanzionabili in sede amministrativa.

A fronte di queste osservazioni, qualcuno obietta che l’abrogazione dell’abuso d’ufficio potrebbe provocare una riespansione delle altre ipotesi penali, sopra esemplificate, nelle quali esso è presente (Coppi e Cupelli). In altre parole, i pubblici ufficiali potrebbero essere maggiormente colpiti da accuse per corruzione, concussione, più gravi del mero abuso d’ufficio. Dunque, il rischio è che non si attenui la paura della firma, anzi. La fondatezza di quest’obiezione potrà essere verificata nei fatti.

Non si considera che la paura della firma non è determinata tanto dal reato di abuso di ufficio, quanto dalla complessità delle regole amministrative. «Nel sommo disordine che caratterizza il nostro sistema amministrativo, nel tumultuoso accavallarsi delle competenze, nel viluppo inestricabile delle procedure, nell’aleatorietà degli strumenti normativi (…) il rischio di essere contaminato da una denuncia incombe anche sul più scrupoloso ed onesto degli amministratori pubblici» (Padovani). Per cui, piuttosto che sbagliare, ed essere imputati di un qualche illecito, si preferisce stare fermi. La paura della firma va contrastata con una più efficiente, semplice e chiara regolamentazione.

Infine – si osserva - l’eliminazione di questo reato sarebbe in contrasto con la Convenzione di Merida (articolo 19), ratificata dall’Italia nel 2009. Impone agli Stati firmatari di valutare la sanzionabilità penale dell’abuso d'ufficio (Gatta e Cupelli). Nel maggio scorso, inoltre, è stata presentata una nuova proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione che prevede l'armonizzazione di vari reati, tra cui l'abuso d'ufficio. Dunque, l’Italia andrebbe in senso opposto a quello dell’Ue.

È vero che nel ddl si dispone che «resta ferma la possibilità di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire». Ma allora ci si chiede perché non si sia cercata sin d’ora una “formulazione circoscritta e precisa”, anziché dover poi reintrodurre il reato nell’ordinamento in forza della disciplina europea.

Intercettazioni

Il ddl amplia il divieto di pubblicazione delle intercettazioni, consentita solo se il contenuto è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento oppure se utilizzato nel corso del dibattimento. Resta quindi escluso il contenuto dei “brogliacci d’ascolto”, delle informative della polizia giudiziaria, delle intercettazioni inserite nella richiesta del pubblico ministero (pm). Inoltre, si dispone una particolare tutela per i dati relativi a soggetti diversi dalle parti: al pm è vietato indicare i dati personali di questi soggetti nella richiesta di misura cautelare, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini; al giudice è vietato inserire tali dati nell'ordinanza di misura cautelare. Insomma, si rendono conoscibili – e possono essere riprese dai media - solo le intercettazioni che siano passate al vaglio di un giudice terzo ed esclusivamente per quanto attiene alle parti coinvolte.

Questa norma ha sollevato critiche di segno opposto. Per un verso, ci si lamenta del fatto che le intercettazioni escluse dal giudice, in quanto non rilevanti ai fini del processo, potrebbero essere rilevanti per altri fini, con la conseguenza che escludere la loro pubblicazione si tradurrebbe in una compressione del diritto di cronaca: un “bavaglio” alla stampa. A ciò può obiettarsi che rimangono pubblicabili le intercettazioni riversate dal giudice nella motivazione di un provvedimento cautelare o utilizzate nel processo.

Quelle relative ai poliziotti accusati di tortura a Verona, per restare a un esempio della cronaca recente, sono presenti nell’ordinanza di custodia cautelare, per cui sarebbero state comunque note. Inoltre, le intercettazioni sono un mezzo molto invasivo, per cui il loro utilizzo deve attenersi a criteri di proporzionalità e adeguatezza, cioè dev’essere funzionale all’indagine per cui vengono disposte e non deve riguardare soggetti che con essa non hanno nulla a che fare. A maggior ragione, questi criteri limitativi devono improntare la pubblicabilità delle intercettazioni stesse. Del resto, la libertà di stampa non è mai assoluta e incondizionata.

Di segno contrario sono le critiche di chi afferma che la riforma rischia di essere poco incisiva nel porre un argine alla pubblicazione di intercettazioni: essa, da un lato, non limita l’ambito dei reati per i quali tale misura può essere disposta; dall’altro, non interviene sulle sanzioni stabilite per chi viola i divieti di pubblicazione di materiale coperto da segreto investigativo, che restano irrisorie (arresto fino a trenta giorni o ammenda fino a 258 euro, art. 684 c.p.) e, quindi, non rappresentano un deterrente. A questa obiezione qualcuno contrappone quanto affermato nel gennaio scorso, in audizione, dal Garante per la protezione dei dati personali, secondo cui la riforma Orlando del 2020 aveva comunque già posto un freno alla divulgazione delle intercettazioni.

Altre misure

Il ddl definisce in modo più puntuale e circoscritto il reato di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.): la formulazione precedente rendeva la condotta indefinita, in violazione dei principi costituzionali di tipicità e tassatività delle norme incriminatrici, dando luogo ad accuse che poi si risolvevano nel nulla di fatto. Si introduce, inoltre, l’interrogatorio preventivo dell’indagato prima di disporre un provvedimento di custodia cautelare, dandogli la possibilità di una difesa preventiva.

Qualcuno obietta che in questo modo si forniscono troppe garanzie all’indagato. Premesso che non si vede perché quest’ultimo non ne abbia diritto, il contraddittorio è comunque escluso quando sussista il rischio del pericolo di fuga e dell'inquinamento probatorio. Ancora, l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere dev’essere adottata da un collegio di tre giudici.

La norma richiede un rafforzamento dell’organico, per cui si applicherà decorsi 2 anni dall'entrata in vigore della riforma, dopo un aumento del personale. Viene disposta l’inappellabilità da parte del pm delle sentenze di proscioglimento per i reati oggetto di citazione diretta, cioè i meno gravi, intendendo l’appello come misura a tutela dell’indagato, che è la parte più “debole” del procedimento.

Ora inizia il percorso parlamentare della riforma. Non resta che augurarsi che il testo finale sia quanto più vicino a quella “giustizia giusta” che tutti i cittadini non possono che auspicare.

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