Alla fine è stata Giorgia Meloni a mettere fine alla questione: il concorso esterno non si tocca. «Mi concentrerei su altre priorità», ha detto la premier, riprendendo esattamente le parole del suo sottosegretario, Alfredo Mantovano, che in settimana aveva provato senza successo a stoppare il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Il guardasigilli, che in un’intervista aveva sostenuto la necessità di tipizzare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, non aveva però voluto capire il messaggio, non tecnico giuridico ma politico: il tema non è in agenda e rischia solo di portare il governo in un ginepraio di polemiche. Imperterrito Nordio proprio il giorno dopo era uscito con un una lunga intervista sul Corriere della Sera per dettagliare le ragioni dell’importanza di metter mano al reato.

Con un risultato: portare davvero la maggioranza a discutere di questo e soprattutto a dividersi, con Forza Italia compatta a sostegno di Nordio e il vicepremier Antonio Tajani pronto a sostenere l’iniziativa, e Lega e Fratelli d’Italia contrari. Il neosegretario di Forza Italia ha utilizzato proprio questo argomento durante il suo discorso programmatico e la capogruppo al Senato, Licia Ronzulli è andata oltre: «Il concorso esterno è un reato che c'è solo in Italia e che non ha motivo di esistere. O si è mafiosi o non lo si è, o si concorre, e quindi si è mafiosi, oppure no».

Con questi toni, è passato in secondo piano che si tratti di un dibattito sul nulla in concreto, visto che un disegno di legge non esiste né è in agenda. Ma tanto è bastato per aprire crepe evidenti nel centrodestra.

Per questo a distanza di una settimana è dovuta intervenire direttamente la premier, che ha sempre fatto della lotta alla mafia un suo totem e ha nel suo pantheon personale Paolo Borsellino, ma di cui era addirittura stata messa in dubbio la presenza alle commemorazioni del 19 luglio in via d’Amelio. Il concorso esterno non si tocca, punto. «Comprendo benissimo sia le valutazioni del ministro Nordio che sono sempre molto precise, sia le critiche che possono arrivare», ha aggiunto Meloni. Una sconfessione in piena regola, sia pur a malincuore perchè tra i due il rapporto sarebbe di stima, necessaria per chiudere un fronte pericoloso ma che pesa sul profilo del guardasigilli.

Il passo indietro

Lui stesso, poche ore dopo le parole di Meloni, ha tentato di tamponare la situazione con un comunicato stampa in cui si riallinea alla premier e parla anzi di «perfetta sintonia», definendo «fantasiose e talvolta maligne» le ricostruzioni su «ipotetici dissidi», che servirebbero solo a sabotare la riforma della giustizia.

Indietro tutta quindi: la revisione del concorso esterno «non fa parte del programma». Eppure, seppur in modo stringato, anche in questo caso Nordio non ha rinunciato ad argomentare la sua tesi nel merito sulla necessità di modificare il reato, spiegando che «il problema del concorso esterno è stato da me trattato nei miei scritti di questi ultimi venti anni ed è essenzialmente tecnico», ma «semmai mira a rafforzare la lotta contro la criminalità organizzata». Tradotto, se ancora la posizione del ministro non risultasse chiara: una riforma del concorso esterno servirebbe a migliorarlo, perchè – come Nordio ha ripetuto in settimana – «il concorso esterno è un ossimoro, se sei concorrente non sei esterno e se sei esterno non sei concorrente. Noi non vogliamo eliminarlo, ma il reato va rimodulato».

La polemica ha aperto un tema politico nel governo: per quanto ancora Nordio potrà proporre temi non discussi con gli alleati senza che ci siano conseguenze? La smentita pubblica di Meloni è un avvertimento che mai come ora è arrivato forte e un ridimensionamento politico del ministro, che rende il ministero della Giustizia sempre più fragile. Già indebolita con il caso del sottosegretario Andrea Delmastro, rinviato a giudizio per la divulgazione di informazioni coperte da segreto, e quello delle note anonime contro i magistrati, che sarebbe stata pilotata dalla potente vice capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, via Arenula è nel caos. 

In questa situazione dovrà gestire i delicati passaggi in Senato del disegno di legge che abroga il reato di abuso d’ufficio, ma di cui è ormai certa la modifica in commissione. Non è chiaro se gli emendamenti saranno proposti dal governo o dai gruppi parlamentari, ma la strada è in salita e difficilmente si avrà una approvazione finale almeno in un ramo del parlamento prima della chiusura estiva.

 

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