All’indomani del flop referendario, in casa dei sostenitori del sì volano stracci. Se i comitati sono rimasti uniti fino alla tarda sera del 12 giugno, già la mattina dopo sono emerse tutte le crepe in un mondo che ha interiorizzato male i referendum nati da una strana alleanza tra radicali e leghisti e che sono stati percepiti come gestiti in modo proprietario dal partito di Matteo Salvini.

Queste incongruenze ma anche l’esito fallimentare dei quesiti hanno toccato poco la base leghista, di cui per altro solo una minoranza ha scelto di votare e una parte di questa ha addirittura disatteso gli orientamenti indicati dal suo leader. Si è invece aperto uno scontro nel mondo di chi ha storicamente sostenuto battaglie per la riforma della giustizia: da una parte il partito radicale di Maurizio Turco, dall’altra l’Unione camere penali italiane di Giandomenico Caiazza e i radicali italiani di Igor Boni.

Radicali contro penalisti

A scatenare lo scontro è l’intervista al Corriere della Sera in cui Caiazza – che con Marco Pannella ha partecipato a molte iniziative referendarie – ha parlato di «atto politico avventato» che rischia di essere «pagato carissimo» il cui insuccesso è anche «frutto del modo con cui è stato organizzato: estemporaneo, improvvisato. Chi ha scelto i quesiti? Con chi li ha discussi?». Le Camere penali, infatti, non sono state interpellate per un parere tecnico e la cosa è stata scoperta alla conferenza stampa Turco-Salvini e Caiazza ha stigmatizzato anche la scelta della Lega di non depositare le firme ma di procedere con i voti dei consigli regionali di centrodestra.

Le critiche puntuali - in particolare sul fatto che i quesiti non siano stati discussi con chi da sempre si occupa di giustizia e di eccessiva politicizzazione della contesa sbilanciandola sul centrodestra - però sono state percepite come tardive e hanno diviso al suo interno anche l’Ucpi, con alcune Camere penali locali che hanno preso posizione contro il presidente. Le critiche non sono state gradite nemmeno da Turco, che ha ringraziato Salvini per «la generosità, la linearità e la correttezza con la quale si è comportato» e ha attaccato Caiazza che con le sue parole avrebbe esposto le Camere penali «a cancellare decenni di rapporti del Partito Radicale». 

Radicali contro radicali

In realtà, le critiche al modo con cui sono stati proposti i referendum è arrivata anche dai radicali italiani (nati con la scissione del 2001 dal partito radicale) di Igor Boni, che hanno sì contestato il «boicottaggio del cosiddetto servizio pubblico della Rai» e il quorum quasi insuperabile, ma si sono uniti alle critiche di Caiazza sostenendo che «i promotori ci hanno messo del loro: questa campagna à stata organizzata in modo estemporaneo e improvvisato». 

I magistrati esultano

I contrasti nei mondi che più hanno spinto, negli anni, per una riforma dell’ordinamento giudiziario e il flop del referendum hanno contribuito a rimettere in gioco la magistratura associata. I gruppi associativi, infatti, hanno esultato contro «Chi pensava di lucrare dagli scandali della magistratura un consenso elettorale», ha detto Eugenio Albamonte, segretario di Area. Il segretario di Magistratura indipendente, Angelo Piraino, si è spinto oltre chiedendo che «la politica si interroghi seriamente sulle cause di questo esito, assumendosi le sue responsabilità e cercando di comprendere il senso del messaggio che gli elettori hanno voluto inviare». 

Il referendum, quindi, rischia di essere un vero e proprio boomerang: l’astensionismo, infatti, può venire letto anche come favorevole alla categoria delle toghe e rafforzarla nella sua opposizione alla riforma Cartabia, che con le sue riforme dell’ordinamento giudiziario non ha orientamenti lontani da quelli del referendum. Come ha detto a Repubblica l’ex magistrato Nello Rossi, di Magistratura democratica, il parlamento e la ministra dovrebbero misurarsi «con i meditati consensi e le critiche argomentate fin qui ricevute. C’è spaio per migliorare il testo legislativo, e ce n’è bisogno».

L’ipotesi che la riforma Cartabia venga rimessa in discussione alla luce del fallimento referendario (tre quesiti bocciati su cinque riguardano questioni modificate anche dal ddl) sembra un auspicio improbabile e dal ministero non trapelano margini di intervento, nonostante Lega abbia annunciato che non ritireranno i loro emendamenti. Il testo è già stato approvato alla Camera e ora manca solo il via libera del Senato, in tempo per non fare slittare troppo in là l’elezione del Consiglio superiore della magistratura con la nuova legge elettorale.

L’insuccesso alle urne di questi referendum  rischia tuttavia di provocare un effetto imprevisto: dividere nella sconfitta i sostenitori del Sì, allontanando così per il futuro l’ipotesi di usare lo strumento per riforme in materia di giustizia.

 

 

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