L’approvazione definitiva della riforma costituzionale è avvenuta a tempo di record, come previsto e annunciato. Si apre dunque la stagione del referendum, reso necessario dal fatto che la maggioranza parlamentare è stata inferiore ai due terzi. Più che dei contenuti della legge, peraltro, la maggioranza è sembrata preoccuparsi finora della celerità e del messaggio politico della riforma.

Il che già di per sé dovrebbe allarmare qualunque cittadino, visto che parliamo di modificare la Costituzione.

Lascia sbigottiti il solo fatto che si concepisca di rivedere la Carta dopo poche ore di discussione, con norme che sono state blindate contro ogni possibile emendamento, accettando il rischio – l’ha detto il ministro Nordio e l’hanno ripetuto altri esponenti della sua maggioranza – di alcune «imperfezioni», come se il sorteggio integrale dei magistrati che dovrebbero andare a comporre i due nuovi Consigli superiori fosse un dettaglio e se un dettaglio sbagliato potesse restare nel nostro testo costituzionale.

Nella relazione illustrativa della riforma sta scritto che una delle sue ragioni fondanti è data dal miglioramento della qualità della giustizia che essa apporterà. Il ministro della giustizia stesso di recente ha confermato ciò che da sempre i magistrati vanno affermando, cioè che la modifica costituzionale non c’entra nulla con l’efficienza del servizio.

Nessun beneficio

Nel dibattito pubblico la riforma viene definita «sulla separazione delle carriere». Tutte le attenzioni della politica (e dell’Unione camere penali italiane) sono focalizzate su questo aspetto. Ora finalmente il presidente del Senato Ignazio La Russa, che è anche avvocato, ha confermato ciò che da sempre i magistrati dicono, cioè che non può essere questo l’obiettivo, visto che i passaggi dei giudici al ruolo dei pubblici ministeri o dei pubblici ministeri al ruolo dei giudici sono ormai una percentuale infinitesimale, grazie alla riforma Cartabia.

Quindi, se l’amministrazione della giustizia non ne avrà benefici e l’obiettivo principale della riforma annunciato ai quattro venti è in realtà già raggiunto, perché modificare un’intera sezione della Costituzione?

Al cittadino comune sfuggono – anche perché chi ha proposto la riforma si guarda bene dal spiegarli – i tecnicismi che celano le vere, grandi novità del doppio Csm e dell’Alta corte disciplinare. Basta forse un’osservazione a svelare il disegno che vi sta dietro.

La chiave di lettura è fornita ancora una volta dal ministro Nordio che, poco meno di un anno fa, interpretò così la filosofia della proposta politica rivolta ora ai cittadini: «Siete contenti della magistratura di oggi? Se non lo siete, votate Sì».

Eccola qua la ragione della riforma: ridisegnare la collocazione costituzionale della magistratura dividendola in due; sorteggiando coloro che nel Consiglio superiore della magistratura dovrebbero meglio garantirne l’indipendenza e l’autonomia dal potere esecutivo; ponendo lei sola – non anche le altre magistrature del nostro Paese! – sotto la scure disciplinare di un nuovo organo (l’Alta Corte), nella quale la percentuale di rappresentanti della politica sarà superiore e le cui decisioni neppure saranno impugnabili in Cassazione, sebbene ciò sarebbe dovuto per Costituzione stessa.

Il disegno enunciato nel programma della P2, la campagna di delegittimazione iniziata trentacinque anni fa, contro le «toghe rosse» o i «giudici antropologicamente diversi dalla razza umana», arrivano insomma alla soluzione finale: non più una magistratura libera di indagare e giudicare qualunque cittadino, il potente come l’uomo qualunque, il funzionario pubblico (magistrato incluso) come l’imprenditore privato, secondo il modello voluto dai padri costituenti, quando era ancora viva l’esperienza della magistratura fascista, asservita al potere. Si torni a un ordine giudiziario burocratico e intimidito, che non disturbi il manovratore al governo.

Ma questo davvero vogliono i cittadini?

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