«Aò, te ricordi do sta sto posto, sì?». Con un vocale di quattro secondi mi annuncia che sta arrivando. L’attore Andrea Carpenzano è quanto di più imprevedibile può capitare a un giornalista. Soprattutto alla fine di una bottiglia di Franciacorta e a metà intervista.

Vive in zona Monti, a Roma, è geloso dei locali in cui va – dove lo conoscono e sanno cosa beve – e un po’ per pigrizia, frequenta sempre gli stessi. In passato lo avevo incontrato casualmente qui, dove ci ritroviamo oggi, poi la nostra comune passione per il bien vivre – l’alcol principalmente – ci ha resi amici. Stavolta, per variare, mi aveva proposto di vederci in un'altra enoteca ma due ore prima dell’incontro ha cambiato idea. «Lì ce so’ troppi cinematografari», ha detto con diffidenza, come se lui facesse altro nella vita. E siamo tornati nel solito posto.

Dal 24 marzo Carpenzano sarà protagonista del film Calcinculo di Chiara Bellosi prodotto da Tempesta e Rai Cinema, e presentato pochi giorni fa al Festival di Berlino, dove lui non è andato perché ha paura di volare. La storia è una favola moderna, interpreta Amanda, una ragazza nel corpo di un uomo, che lavora in un circo e si prostituisce per vivere. La sua vita si intreccia con quella di Benedetta, Gaia Di Pietro, quindicenne soprappeso che con Amanda scopre la felicità, più che in famiglia (la madre è interpretata dall’eccelsa Barbara Chichiarelli). Per girare la pellicola Carpenzano ha dovuto perdere peso, ma la naturalezza con cui si comporta da femmina sembra appartenergli profondamente. «Ho solo mostrato il mio lato femminile», commenta quando glielo faccio notare. «Un’amica che mi conosce bene mi ha detto: “Che ce vò? Sei te. È una parte di te”. Io non ho mai dato limiti a ciò che poteva esse ‘na persona. Me piace avè sto lato qui. Ma non gli do un nome».

Foto di Simona Pampallona

Sguardi e pause calibrate

I silenzi sono la sua cifra involontaria. I registi lo amano perché aggiunge poesia alle scene solo con sguardi e pause calibrate. Le usa anche qui, seduto su questo tavolino sul marciapiede, quando mi fa capire, senza parlare, che a certe domande non ha voglia di rispondere - ma poi lo fa. E che la birra è una scelta mia che non apprezza, visto che avrei potuto condividere un vino più pregiato con lui.

Non ha mai studiato recitazione, ha il talento naturale di chi sa stare meglio sul set che nella vita, dove ha ancora qualche nodo da sciogliere. Lo descrive bene il suo amico Leonardo D’Agostini, che lo ha diretto nel film Il campione e, più tardi, si siederà al tavolo con noi: «È lui che si comporta da adulto e ci inganna, ma ha solo 26 anni».

Capisco i registi che lo hanno voluto, da Francesco Bruni che lo ha scoperto, ai gemelli D’Innocenzo che lo hanno preso come protagonista nella loro opera prima La terra dell’abbastanza. Poi i ruoli, da Nic, il drammatico personaggio di Lovely Boy di Francesco Lettieri a San Francesco, nel film Chiara di Susanna Nicchiarelli (non ancora nelle sale). E ora Amanda. Mentre chiede le patatine “salentine”, mi domando come sia possibile che passi, con disinvoltura, da ruoli tanto complessi.

Cita la popstar Dua Lipa e il rapper Post Malone come  coetanei che stima, e mentre li nomina squilla il suo iPhone. Sullo schermo leggo “Eccallà”, lui risponde. «Mà, te richiamo, ora sto a fà n’intervista». Mi guarda: «L’ho salvata così dieci anni fa, appena stavo pe’ fà qualche danno lei me chiamava».

Pesa il giudizio di tua madre nella tua vita?

No. Mi diverte. Come quando gli ho raccontato che avevo fatto un provino. Avevo 18 anni, vivevo da mio padre (i genitori sono separati, ndr). E lei mi ha detto: «Non ti richiameranno mai». L’ho capita perché io avrei pensato la stessa cosa. So’ stato un miracolato.

Perché vivevi da tuo padre?

Alternavo, in base a chi mi cacciava di casa.

Che facevi per farti cacciare?

Tornavo alle 4 di notte, ubriaco, a scola non c’andavo. N’c’avevo tempo pe’ andà a scola.

E i tuoi?

Non sapevano più che dimme. Erano convinti che non avrei combinato ‘n cazzo nella vita. Sono cresciuto in una famiglia che si ama in un modo non retorico, senza dirselo. Parliamo coi silenzi, e quando usiamo le parole è talmente ridicolo che diventa importante.

«C’è sempre un silenzio che ci imbroglia, perché lì sentiamo tutte le parole che ci spaventano», scriveva Cesare Pavese.

A me non mi imbroglia, ci sto bene.

Coi registi come sei?

Coi Gemelli faccio il gioco del silenzio, con Leo (D’Agostini, ndr) sul set sbroccavo ma poi ci capivamo (nel frattempo D’Agostini arriva, ndr). Sembro ostico ma in realtà penso sempre a cosa vuole l’altro. Con Chiara (Bellosi, ndr) non ci siamo mai urlati addosso ma c’è stato confronto, a modo nostro.

A scuola che tipo eri?

Sono nato e cresciuto in un ambiente in cui vince il testosterone. Io vengo da una comitiva romana in cui si scherzava a dì “frocio”, “negro” e cose del genere. Non c’era sta cosa dell’“apriamoci” al diverso. Ero io che ce l’avevo dentro. Ma l’ambiente era testosteronico. Facevamo a gara a chi ce l’aveva più lungo.

Eppure la tua è la generazione del gender fluid.

Quando dici gender fluid io non so manco di che cazzo se parla. E neanche me ’nteressa. Ai tempi miei si chiamavano trans o femminiello, ma Amanda non è questo. È un travestito ma non se po’ manco dì travestito. Amanda è Amanda, lei si sente una ragazza. Non si sente un ragazzo, un uomo o una donna. Si sente una ragazza.

Una ragazza che soffre.

Non è importante, questa parte non è raccontata.

Come no. In modo implicito quando dice a Benedetta, «tutti vogliono solo quello da me». O «pure se ci rimani male, è bello».

Non ho fatto retropensieri su quello che dovevo imparare. Primo perché non c’avevo tempo, e due perché nummannava. Amanda usa Benedetta, per compagnia, per noia, per sentirsi bella. Ma anche Benedetta usa Amanda. Si usano entrambe, come succede nella vita.

Da chi hai tratto ispirazione per il tuo lato femminile?

Ce l’ho da sempre, l’avevo capito già da piccolo guardando mi padre. Siamo un po’ femmine noi maschi di casa. Il modo de corre o de usà le mani lo vedo in tante femmine. Quando corriamo la mano va pe’ i cazzi suoi. Questa è una cosa che, nell’idea collettiva, appartiene più alle donne. Va bene, a me non cambia niente.

Alcuni abiti di scena sono stati una tua idea.

Amanda se deve sentì bella.

Indossavi i legging ma ai maschi solitamente non piacciono.

Stavo comodissimo, li metterei sempre.

Come scegli i film da fare?

Me l’hai già chiesto.

Non oggi.

Dico sempre la stessa cosa.

Ridimmela.

Perché almeno posso sceglie di che morte devo morì. Non mi va di sedermi, voglio farmi venire la psoriasi. In questo caso avevo paura di salire sui Calcinculo (la giostra che dà il nome al film, ndr) ma l’ho fatto. Me so’ sentito male durante e dopo, ma ce so’ riuscito. Ho un controllo fortissimo sul mio corpo, non sempre positivo. Sono ipocondriaco, l’altro giorno ero convinto di avere il Covid e me so’ fatto venì la febbre a 37.2. Dopo mezz’ora era a 36.

A proposito dei film che scegli, una volta mi hai detto: «Se dipendesse da una parte di me, non lavorerei mai».

Detta così sembra che non me ne frega un cazzo. Posso sta male, a tratti sta bene. Ma devo occupare il cervello. Ne Il campione facevo il calciatore, quanto di più lontano esiste da me; interpretare Lovely Boy e Amanda era complicato, perché non potevo tornare Andrea in un attimo. L’alcolizzato non lo farei, sarebbe troppo facile.

E non insegui ruoli “ruffiani”, di quelli che ti danno fama e soldi.

Ti sembro uno che fa i film per questo?

E come si vive stando così?

Se non avessi questo lato qui, sarei morto. Mi vedrei bravo, mi farei i complimenti da solo. E diventerei una persona che odierei essere. Ma non c’è rischio che accada, perché a me me viè da vomità quando me riguardo. Finché so’ presuntuoso e insoddisfatto è bellissimo.

Perché, ti viene da vomitare quando ti rivedi nei film?

È un insieme di cose dentro che esplode, per primo il senso di colpa.

Per che cosa?

Per aver rovinato la visione ad altre persone.

Pensi che avresti potuto fare meglio?

Certo. Mi faccio orrore, provo insoddisfazione verso me stesso. Verso gli altri. E anche rabbia per chi, vedendomi, dice bravo. Ma come te viè in mente?

I complimenti quindi non ti piacciono.

Piacciono a tutti, anche a me. Li apprezzo se sono motivati.

Quando ti dici bravo?

So’ bravo a sceglie il vino.

Hai mai letto i libri di Bukowski?

Damiano D’Innocenzo me ne ha regalato uno, ho letto solo qualche stralcio, me so’ ritrovato dove parla del vino e non usa la punteggiatura. Ma non leggo libri.

Si inserisce D’Agostini: «Anche io gli ho regalato il libro di Antonella (Lattanzi, la sua fidanzata, ndr), Una storia nera, ma non l’ha mai letto».

La felicità nelle persone intelligenti è la cosa più rara che conosca, diceva Hemingway. È così?

Non ho mai cercato la felicità. Non mi interessa.

Quando bevi vino sei felice.

Quei tre secondi. Ma non è felicità, è euforia. Io so’ malinconico.

Che ti piace della malinconia?

È sensibilità, me fa stà bene.

E invece per che cosa t’incazzi?

Poca roba, giustifico tutto. Me fa ’ncazzà solo la Roma quando pareggia.

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