Nell’immagine che si è costruito ci sono somiglianze con Er Monnezza, il personaggio di Tomas Milian nei film anni Settanta: cappellino o bandana, barba, capelli lunghi scomposti a coprire una parte del volto. E adesso un film è diventato lui, il Bocia, al secolo Claudio Galimberti, forse il più famoso ultrà d’Italia, fede nerazzurra, ramo Atalanta. Solo che, a differenza del Monnezza, che era un poliziotto trasandatamente vestito, lui sta dall’altra parte, quella dei cattivi, “che poi così cattivi non sono mai”, come recita la canzone.

Ha racimolato 28 anni di daspo, che significa bandito dagli stadi, una sequela di processi, la violenza da curva rivendicata con orgoglio, i limiti del codice penale valicati con noncuranza. E sul lato opposto della bilancia le opere di bene, le raccolte fondi, gli aiuti concreti a terremotati, alluvionati, persone in difficoltà, tanto da far dire a molti suoi discepoli che «tutto quello che ho imparato dalla vita l’ho imparato in curva, dal Claudio». E non si tratta solo di facinorosi, ma anche di ragionieri, professionisti, artisti.

Il Bocia: un enigma. O semplicemente, a decrittarne i codici, un ultrà, sacerdote di un’ideologia antagonista, senza nessun riferimento alla politica, propagandata nello spazio che va dagli spalti ai dintorni seguendo riti propri e dando ragione postuma a Pier Paolo Pasolini per cui il calcio è «l’ultima rappresentazione sacra». Nella crisi delle istituzioni che organizzavano l’esistenza dei fedeli, il partito o la chiesa, il calcio come religione laica a segnare come un metronomo il ritmo della settimana: la coreografia da decidere, la preparazione degli striscioni, l’organizzazione delle trasferte, e il tutto finalizzato alla partita-messa del weekend.

Però con la variante degli scontri programmati, auspicati, agognati, con i tifosi avversari. I circenses che esigono il sangue, valvola di sfogo, sfiatatoio di una società che spurga le sue tossine. Sociologia certo, ma in mezzo ci sono teste rotte, persone sciancate, persino qualche morto. Inaccettabile in una civiltà evoluta, dove c’è un sistema di leggi da rispettare, inconciliabile con le norme tribali che governano i clan delle curve, aggrappati a miti dell’onore cavalleresco di medievale memoria misti a una giustizia sommaria da strada. Le bandiere da difendere a qualunque costo neanche fossero il Graal che definisce l’identità, le ferite come le stimmate testimoni del vigore intrepido, della fedeltà a un’idea, una comunità.

L’insieme così aggrovigliato e contraddittorio non poteva non interessare a un regista come Davide Ferrario, qui produttore del documentario a firma Andrea Zambelli, titolo A guardia di una fede, lo slogan preferito dal protagonista, già presentato al Torino Film Festival e dal 2 dicembre in sala a Bergamo e poi altrove.

Ferrario è atalantino come il Bocia, andava anche lui all’Atalanta da ragazzo, per poi smettere quando concluse che il calcio era un’arma di distrazione di massa; salvo ricredersi dopo il successo dell’Italia al Mondiale del 1982, quando ne rivalutò l’importanza come elemento unificante e di aggregazione. Non vuole «giustificare l’illegalità», però difende il principio che «da un punto di vista simbolico possano esistere luoghi dove rivendicare temporaneamente una sorta di autonomia». È la china, invero pericolosa, che può condurre al diritto all’extraterritorialità negli stadi.

Adesso cosa fa

Se bisognava scegliere un’icona per rappresentare con il mezzo del cinema il mondo ultrà, Davide Ferrario se l’è trovato in casa pur non avendolo mai conosciuto di persona. L’amico e regista Andrea Zambelli da decenni segue il Bocia Galimberti, «un carismatico a cui va riconosciuta una dote rara come la coerenza». Il materiale c’era, bisognava dunque legarlo e perfezionarlo nel racconto di un’esistenza originale.

Partendo dai suoi 48 anni attuali, dal suo buen retiro obbligato nelle Marche, dove si è rifugiato per fare il pescatore e per badare ai cavalli, passando «dalle stelle alle stalle» come dice tra l’ironico e il fatalistico mentre con il forcone riempie di biada la mangiatoia in una scuderia. Da anni non può assistere dal vivo a una partita di calcio per via delle varie condanne, si è perso l’epopea migliore dell’Atalanta di Gasperini. Eppure resta il leader riconosciuto e incontrastato, con una fama che ha valicato non solo l’Adda, ma anche il Po e il Tevere, godendo del rispetto degli avversari più irriducibili nelle botte di strada.

L’attualità di una vita normale in netto contrasto con l’avventuroso passato. Gli esordi in curva con gli zii quando andava all’asilo, l’avvio del percorso iniziatico. L’esame di terza media evitato per seguire una trasferta a Catanzaro con battesimo del fuoco negli inevitabili tafferugli: nessuna giustificazione del tipo “assenza per Atalanta”. I viaggi in Europa all’epoca di Emiliano Mondonico quando non aveva ancora una carta d’identità e veniva nascosto nei borsoni per il passaggio delle frontiere, la zip aperta di dieci centimetri per permettergli di respirare. Aveva 15 anni quando partì da solo per Bari dove l’Inghilterra giocava la finale per il terzo posto ai Mondiali, a lui interessava non tanto la partita quanto vedere da vicino gli hooligan, studiarne i cori, i tatuaggi, le bandiere. La prima diffida, ancora minorenne, dopo una battaglia con la polizia, corollario di un match con il Milan.

La fascinazione cupa

In parallelo la scalata nella gerarchia del tifo, unitamente al progetto di unificare tutti i vari gruppi sotto un unico vessillo, convinto che così sarebbero stati più forti nelle risse, più capaci di incitare la squadra, di coinvolgere lo stadio intero. Ferrario: «Senza di lui, senza di loro, allo stadio sarebbe il silenzio». Operazione riuscita.

Il Bocia ha il suo “esercito” numeroso, in grado di competere con quelli che portano bandiere rossonere, bianconere, giallorosse. I sopralluoghi prima delle partite come a Firenze per eludere i controlli di polizia e cercare liberamente gli altri con cui menarsi. Durante le tregue, la solidarietà ai rivali bresciani del derby più sentito, quando uno di loro è rimasto ferito in un scontro con i poliziotti.

Così si guadagna il rispetto, che tipo il Bocia, e la popolarità dilaga mentre fioccano le denunce. Da evitare uno del genere? Niente affatto. Nemmeno per il presidente, Antonio Percassi, sul palco a una festa della Dea organizzata dal Claudio. Così come il padre di Yara Gambirasio, la ragazza uccisa, ruppe il silenzio pubblico salendo sulla stessa tribuna, benedetta pure da qualche sacerdote. Cattivo maestro o buon maestro? Entrambe le variabili. Sicuramente è buono per Andrea Mastrovito, l’artista con studio a New York. Già tifoso di curva, incaricato di abbellire con le sue opere la cappella dell’ospedale Papa Giovanni, ha dato il volto del Bocia al Cristo in croce. E persino nella cattolica Bergamo questa provocazione, dopo qualche mugugno, è stata perdonata. Diavolo d’un Bocia, benedetto con l’acqua santa.

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