C'è da chiedersi che cosa abbiano potuto festeggiare il 1 maggio gli italiani che un lavoro non ce l'hanno, cioè che non hanno lavorato almeno un'ora nell'ultima settimana. Sì perché, lavorando un’ora alla settimana per un salario lordo di una quarantina di euro mensili, per la statistica ufficiale risultano occupati. Sono arrivati gli ultimi dati Istat. Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, spiega che dall'inizio della pandemia ci sono 900 mila occupati in meno. Altri subiscono "lavoro povero" (il part time involontario) e precarietà. Per milioni di giovani e donne ci sono i contrattini: per l'altra metà del cielo sociale bisognerebbe istituire la festa del lavoretto.

Questi dati non dovrebbero solo suscitare solidarietà per i milioni di famiglie con l'acqua alla gola, ma anche un po' di sana preoccupazione egoistica in chi se la passa bene. Con questi numeri rischia di saltare ogni equilibrio ma la politica si occupa di altro, per esempio dei ristoranti. Non è un caso. A un operaio licenziato il discorso pubblico nazionale non riconosce più il diritto di lamentarsi (è il mercato bellezza), solo agli imprenditori è riconosciuto un pieno diritto di cittadinanza. Eppure in Italia i ristoranti sono 330-350 mila e occupano 1,3 milioni di persone. Un settore economico tra i più importanti del paese, sicuramente, ma solo una frazione del dramma della disoccupazione.

In attesa della manna dal cielo chiamata Pnrr o Recovery plan, il governo dovrebbe riflettere sulle minacce per la tenuta sociale di un paese piegato dalla crisi. Quanto denaro pubblico rischia di andare ad arricchire i già ricchi? Sarebbe consigliabile non aggirare l'argomento gridando alla demagogia. Adesso è stagione di bilanci. Come spiegare ai milioni di disoccupati o cassintegrati che numerose società quotate in Borsa anche nell'anno orribile 2020 hanno fatto profitti e distribuito dividendi agli azionisti dopo aver ricevuto dallo stato milioni di sovvenzioni erogate per "salvare le aziende"? Quante imprese hanno fatto profitti per decine di milioni e senza arrossire hanno allungato la mano per farsi dare dallo stato il contributo di 80mila euro per sanificare gli uffici? Con quei soldi (finiti in dividendi o in bonus ai manager meritevoli di aver succhiato qualche euro in più ai contribuenti) avrebbero campato quattro famiglie. E poi cassa integrazione a rotazione, contratti di solidarietà, stati di crisi vari, fiumi di denaro pubblico passato dalle tasche dei contribuenti agli azionisti delle società quotate. Perché il Covid può mandare le famiglie alle mense della Caritas, ma guai a chi tocca la sacra "remunerazione del capitale di rischio" (poi qualcuno dovrà spiegare al cassintegrato di un'azienda che continua a distribuire dividendi che il rischio d'impresa l'ha corso il padrone).

Il vero eroe del 1 maggio è Fulvio Montipò, fondatore e presidente della Interpump, società manifatturiera di successo. Nel 2020 la sua società l'ha pagato 14,4 milioni di euro, proiettandolo in testa alla classifica dei manager più pagati curata da Gianni Dragoni per Il Sole 24 Ore. Gli altri 478 lavoratori sono costati alla Interpump il doppio, 28,7 milioni. Il che significa che Montipò ha guadagnato come 240 suoi dipendenti sommati. O, se volete, che un dipendente della Interpump per mettere insieme lo stipendio 2020 (attenzione: stipendio, non profitto) del padrone dovrebbe lavorare 240 anni. Se il governo non convince i milioni di italiani poveri che il Pnrr attenuerà queste indecenze anziché aggravarle, il sistema salta.

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