Non è una novità che i partiti politici non godano più di molto credito. È dagli anni Novanta che in tutta Europa, non solo Italia, il credito di cui hanno goduto nei primi decenni dopo la guerra è sfumato. Perché allora ad ogni passo si sente ripetere questa litania un po’ stucchevole e alla fine fuorviante della “crisi dei partiti”.

Certo che la fiducia nei loro confronti è molto bassa, certo che la gran parte dei cittadini li ritiene autoreferenziali, lontani, disinteressati ai problemi dei persone comuni, certo che offrono spesso uno spettacolo misero e triste; ma è quello che si merita una società incivile.

Se a nessuno interessa partecipare, intervenire, impegnarsi, beh allora bisogna accontentarsi di quello che passa il convento. E se la società tracima di evasori fiscali e di menefreghisti, di sfruttatori e di scansafatiche, di furbi e di razzisti, allora come si può pretendere che questa stessa società distilli i migliori per la cosa pubblica.

La politica, o per meglio dire la classe politica, è lo specchio del paese. Eppure di tutto questo, di quella grande parte marcia del paese reale che inquina quella sana, si parla poco e ci si indigna ancora meno. Sono gli altri, i partiti, i colpevoli.

La dignità, evocata ripetutamente dal presidente Sergio Mattarella nel suo discorso inaugurale, impone un esercizio di autocoscienza nella società civile. E lo stesso vale sul versante politico. Ma i partiti non sono ridotti in macerie solo perché hanno impiegato sette votazioni prima di trovare un presidente.

Che si sarebbe dovuto dire allora delle 16 votazioni per eleggere Sandro Pertini nel luglio del 1978, a pochi mesi dall’omicidio di Aldo Moro, in un paese devastato dalla violenza politica, piegato da una inflazione a doppia cifra, con un presidente della Repubblica dimissionario per il coinvolgimento in uno scandalo e con l’esito di un referendum, quello sul finanziamento pubblico, che aveva disatteso clamorosamente le indicazioni di quasi tutte forze parlamentari.

Erano forti, autorevoli, legittimi quei partiti che “perdevano tanto tempo” nella ricerca di un nuovo inquilino del Quirinale? Sì: godevano ancora dell’onda lunga degli entusiasmi post bellici, e avevano dirigenti autorevoli, cresciuti in anni di ferro o con lunghi cursus honorum interni ai partiti stessi. Non si arrivava al vertice perché si eccelleva nella società civile.

Il mondo è cambiato sideralmente da allora. Ovunque nel mondo, oggi i partiti faticano a relazionarsi con una società sfuggente, frammentata, distratta. E anche disorientata dalla complessità dei problemi, che alcuni provano a ridurre additando capri espiatori, gli immigrati, la classe politica, i mercati.

Spetta ai partiti trovare gli strumenti in linea con l’ambiente post industriale, globalizzato e digitale per ascoltare e  comprendere la società; e provare a risponderle. Un esercizio indispensabile per recuperare la dignità perduta della politica.  

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