L’Abruzzo è una regione molto rappresentativa del successo del centrodestra, e di Fratelli d’Italia in particolare, per una serie di ragioni. Qui Meloni ha eletto il suo primo presidente di Regione, l’uscente Marco Marsilio, e qui il centrodestra ha ottenuto maggiore consenso rispetto alla media nazionale alla elezione politiche del 2022, con la coalizione quasi al 48% dei voti totali.

In Abruzzo alle politiche del 2018 il Movimento 5 Stelle, all’epoca ancora un movimento populista e antipolitico più che partito di sinistra come viene oggi etichettato, aveva sfiorato il 40% drenando consensi alla destra e alla sinistra. Da lì è partita la rincorsa della nuova destra, capeggiata prima da Salvini e poi da Meloni, con la vittoria alle regionali del 2019 e poi l’affermazione netta nel 2022. Gli elettori del Movimento 5 Stelle del 2018 si sono spostati quasi tutti a destra negli anni successivi.

Oltre i dati

Ma non sono soltanto i numeri a raccontarci di questa ragione quanto le sue caratteristiche. L’Abruzzo è una regione fortemente decentrata, con molti paesini e cittadine, ha un entroterra importante ed è un territorio privo di grandi metropoli basti pensare che Pescara, la città più popolosa, si assesta sui 120mila abitanti, meno di molti municipi di Roma. Queste specificità lo rendono il cuore, non solo geografico, dell’Italia meloniana.

Tutti i dati elettorali degli ultimi dieci anni ci dicono infatti che la destra domina sul piano elettorale in territori con queste caratteristiche: aree interne, città inferiori ai 200mila abitanti, decentralizzazione. Sono luoghi in cui l’offerta politica progressista ha faticato molto ad attecchire e in cui anche il centro ha sempre stentato. Inoltre, si tratta di una regione di cesura tra centro e sud Italia, quei luoghi in cui l’ascesa di Fratelli d’Italia è stata più forte e repentina poiché libera dall’interdizione che la Lega era in grado di fare al nord fino al 2022.

Vista su giugno

Per questi motivi il voto regionale riveste qualche interesse sul piano nazionale e non tanto, come si dice, per l’esperimento del “campo largo” a sinistra che dovrà comunque superare altre numerose prove.

Qui c’è un banco di prova sull’elettorato tipico e fondante della maggioranza di governo. Questo ovviamente non deve farci dimenticare che si tratta di un voto regionale e quindi contano molti fattori, umani e organizzativi, diversi dalle dinamiche nazionali. Sconfitte e vittorie locali possono dare solo qualche indicazione sul reale stato di salute dei partiti politici, ma questo territorio per la destra è più indicativo della Sardegna.

Tuttavia, questi passaggi non sono altro che parte di una lunga corsa verso le elezioni europee. Per la destra si tratta di trovare conferme come coalizione in attesa di un regolamento di conti tra Meloni e Salvini che dopo le europee non sembra più rimandabile. Per la sinistra sono tappe di una accesa competizione per la leadership tra Conte e Schlein. Il voto di giugno segnerà per Meloni il momento delle scelte: un nuovo patto di governo con gli alleati, magari un rimpasto e la rottura delle ambiguità sull’Unione europea che passa dal traghettamento dei conservatori verso un voto a von Der Leyen, o a un altro candidato del Ppe, e l’ingresso in maggioranza.

Se ciò non avvenisse, il governo entrerebbe in una fase diversa e più complessa. Ma le europee possono cambiare anche il gioco a sinistra. Schlein rischia di essere licenziata dal proprio partito in caso di un risultato insoddisfacente, mentre Conte potrà continuare a coltivare le proprie idee disallineate al Pd sia sull’Europa che soprattutto sulla politica estera. A quel punto il discorso sul “campo largo” sarebbe da riprendere quasi da capo a prescindere dai risultati delle regionali.

© Riproduzione riservata