Alla scomposta fuga statunitense dall’Afghanistan corrisponde l’ingresso soft della Cina. Due eventi che esemplificano un cambio notevole nel modo di concepire la politica internazionale. Al di là dell’uso distorto e dell’abuso praticato dagli Stati Uniti (e in alcune occasioni dalla Nato), a partire dalla Carta di San Francisco del 1945, la politica internazionale si è modellata su un principio morale: il rispetto della persona. In Italia, già nel 1943, pochi giorni prima della caduta del fascismo, gli intellettuali cattolici riuniti nel monastero di Camaldoli avevano affermato idee simili.

La giustificazione dei diritti umani universali è radicata nella teoria del diritto naturale, sia di matrice cristiana sia di matrice razionalista; e ha conosciuto un punto di svolta con la Rivoluzione francese, che ha inaugurato l’età delle guerre di emancipazione. Tuttavia, fino al Ventesimo secolo il principio adottato dalle potenze europee è stato quello di non ingerenza negli affari interni degli stati europei, salvo praticare le conquiste coloniali.

Dobbiamo arrivare al preambolo della Carta delle Nazioni Unite (1945) per avere una esortazione alle nazioni a sviluppare relazioni amichevoli, fondate sul diritto all’autodeterminazione dei popoli, e a promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.

Su questo solco si è sviluppata la pratica dell’intervento umanitario in deroga al principio della non ingerenza. Molte le violazioni durante e dopo la Guerra fredda: l’intervento della Tanzania in Uganda (1969), dell’India nel Pakistan orientale (1971), degli Stati Uniti a Grenada (1983) e a Panama (1989), infine i bombardamenti della Nato contro la Repubblica Federale di Iugoslavia (non approvati dall’Onu) che hanno riproposto il problema dell’intervento armato umanitario unilaterale.

Alla base della politica ispirata ai diritti umani, divenuta egemone all’ombra dei crimini della Seconda guerra mondiale, vi è un principio che Roberta De Monticelli ha su Domani riaffermato nella sua validità universale: l’esigenza di tutela dei diritti, a cominciare da quello a essere nutruti, a non subire deportazione, a non essere violentati, struprati, torturati, venduti come schiavi. Diritti che sono in tensione col principio di non ingerenza. E che valgono a criticare tutti i regimi, senza distinzione. Si legge nella Enciclopedia Treccani alla voce “diritti umani” che «il diritto internazionale ha per lungo tempo ignorato i rapporti tra lo stato e l’individuo (...) sulla base del principio della “non ingerenza degli affari interni”, sicché la tutela dei diritti umani rientrava nella sfera di competenza interna di ogni singolo stato». È questo il principio riaffermato dalla Cina in Afghanistan.

Contestualismo cinese

Pechino respinge la filosofia dei diritti umani universali in nome del contestualismo o relativismo (diritti occidentali e diritti asiatici sono diversi e giustificati dalle rispettive culture). È la politica come potenza che legittima l’uso del diritto non viceversa. Per la Cina, le relazioni internazionali tornano ad essere espressione delle esigenze nazionali con metodi di ingerenza conseguenti. Dunque, Pechino si rapporta al confinante afghano secondo la propria convenienza nazionale; è questa la logica del “principio di non ingerenza” (che la Cina rivendica anche nei suoi confronti) che il fallimento statunitense riabilita. Nei rapporti con i talebani di Kabul, già avviati prima della ritirata Nato, Pechino mostra di volere una cosa sola: «creare le condizioni per la sicurezza, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione nella regione» come riporta Michelangelo Cocco su Domani del 17 agosto scorso. Stabilità e sviluppo. Sulle questioni interne afghane nessuna ingerenza. E i diritti sono una questione interna, almeno fino a quando la loro violazione non genera conflitti, compromettendo il commercio di petrolio e di altre materie prime con la Cina.

La logica è in linea col metodo del governo cinese verso i suoi cittadini: il benessere economico è generativo di stabilità, e le misure politiche possono incentivare un blando rispetto delle prerogative delle popolazioni se questo è funzionale allo scopo. Rispetto alle democrazie, la logica è rovesciata: il fine (diritti) viene trattato come una funzione di stabilità. E rientra nella filosofia che vuole i diritti umani relativi, una produzione ideologica che riflette il sistema socio-economico occidentale. Di universale vi è solo la politica come potenza.

 

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