Nel 2010, mentre le seconde elezioni “libere” riconsegnavano il governo dell’Iraq alla maggioranza sciita emarginata sotto Saddam Hussein, gli Stati Uniti si accorsero che qualcosa stava andando storto nella campagna avviata sette anni prima senza l’approvazione delle Nazioni unite. L’esercito americano aveva già pagato con 4.500 caduti l’esportazione della democrazia nel paese arabo, ma i pozzi di petrolio passavano uno dopo l’altro alle compagnie cinesi.

Qualche giorno fa British Petroleum e la russa Lukoil hanno annunciato che – come Exxon Mobil, Shell e Occidental Petroleum – potrebbero ritirarsi, per i continui attacchi ai giacimenti di oro nero. I cinesi invece rimarranno. Pechino ha ottenuto protezione per Petro China, Sinopec, Cnooc, Cnpc. l’Iraq oggi esporta oltre 4,2 milioni di barili di greggio al giorno, il 30 per cento dei quali finisce nella seconda economia del pianeta, che nel prossimo quarto di secolo avrà un bisogno crescente di energia. Tenersi alla larga da un’occupazione militare – palese violazione di quel “principio di non ingerenza” sponsorizzato da Pechino – per trarne il massimo beneficio alla fine delle ostilità, stigmatizzando inoltre il «fallimento» statunitense per gettare discredito sulle democrazie liberali. Pechino sta seguendo lo stesso schema iracheno per il confinante Afghanistan, dove appoggia i talebani, perché li ritiene in grado di assicurare stabilità.

Così, mentre il resto del mondo fugge, la Cina (e la Russia) lasciano aperte le loro ambasciate e possono influenzare il futuro di Kabul. La leadership cinese ritiene che la comunità internazionale, prima o poi, dovrà riconoscere un esecutivo con questi “nuovi” talebani che promettono un «governo islamico aperto e inclusivo». Ricevendo il 28 luglio scorso a Tianjin il mullah Baradar, il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, lo ha invitato a combattere le organizzazioni terroristiche, «incluso il Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim)» per «creare le condizioni per la sicurezza, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione nella regione».

Stabilità e sviluppo – un mantra da Deng Xiaoping in poi – nella visione dei leader cinesi sono essenziali e interdipendenti, a Pechino come a Kabul. La minaccia dei miliziani uiguri dell’Etim viene utilizzata soprattutto per giustificare la repressione in corso nella regione nordoccidentale del Xinjiang. Infatti il Wakan corridor, l’impervio confine montano di 70 chilometri con l’Afghanistan, dal lato cinese è blindato dai soldati dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) pronti a impedire qualsiasi infiltrazione.

Xi Jinping e compagni temono piuttosto che il caos a Kabul possa tracimare in Pakistan, dove avanza il progetto più importante della nuova via della Seta (Bri), il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), una rete di strade, centrali elettriche, ponti, fabbriche (costruite da compagnie di stato cinesi) e un oleodotto che riceverà il greggio mediorientale nel porto di Gwadar (sul Mare arabico) e, attraversando da sud a nord il “Paese dei puri”, terminerà nella regione autonoma uigura del Xinjiang: i tempi di navigazione delle petroliere cinesi si ridurranno da un mese a un paio di giorni.

Tareek-e-taliban – fazione jihadista dei talebani pakistani che, secondo l’intelligence Usa, può contare su 2.500-6.000 miliziani – ha rivendicato l’attacco suicida del 14 luglio scorso contro un autobus nel nord del Pakistan che ha ucciso nove tecnici cinesi del complesso idroelettrico di Dasu, parte del Cpec. Le prime indagini pakistane hanno accusato i servizi indiani e afghani. A oggi, Pechino scarta ufficialmente qualsiasi possibilità di intervento armato nella «tomba degli imperi». In un paese che rappresenta una “cerniera” tra il lato centroasiatico e quello mediorientale della Bri, la leadership cinese ha un’ennesima, ghiotta occasione per affermare la sua diplomazia economica.

Accordi sulle infrastrutture

L’economia afghana è attualmente dipendente dal traffico di oppiacei e dagli aiuti internazionali. Per quanto riguarda questi ultimi, l’ultimo Afghanistan Development Update (aprile 2021) ricorda che «alla Conferenza di Ginevra del 2020, i donatori hanno rinnovato il loro impegno a sostenere l’Afghanistan dal 2021 al 2024». Ma, sottolinea il documento della Banca mondiale, «diversi grandi donatori si sono impegnati soltanto per un anno, condizionando un ulteriore sostegno a rapidi progressi da parte del governo nella lotta alla corruzione, nella riduzione alla povertà e nell’avanzamento del processo di pace».

Pechino invece – secondo fonti Usa – avrebbe già pronto un accordo da sottoscrivere con i Talebani per costruire un’autostrada Kabul-Peshawar che proietterebbe l’Afghanistan nella Bri. «Se i cinesi vogliono investire – ha dichiarato nei giorni scorsi il portavoce dei talebani Suhail Shaheen – certamente garantiremo la loro sicurezza». Se si eccettua la miniera di rame di Mes Aynak (di cui China Metallurgical Group Corporation nel 2007 ottenne il diritto di sfruttamento per 30 anni), e il bacino di Amu Darya (di cui China National Petroleum Corporation nel 2012 si aggiudicò lo sfruttamento per 25 anni), negli ultimi decenni poche compagnie cinesi hanno mostrato interesse per l’Afghanistan. Questi due progetti non sono decollati a causa del conflitto e di scandali di corruzione che hanno coinvolto manager cinesi e locali. Ma nel 2013 Xi ha lanciato la nuova via della Seta, e ora perfino i talebani potrebbero essere interessati a ricostruire l’Afghanistan.

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