È di qualche giorno fa la notizia che Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e maestro di diritto, nell’ambito di un convegno avrebbe criticato il provvedimento dell’Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del mercato) che, nel novembre dell’anno scorso, ha sanzionato con una multa di 1,1 miliardi di euro un asserito abuso di posizione dominante di Amazon Italia, per aver imposto alle imprese che commercializzano i loro prodotti attraverso la piattaforma condizioni eccessivamente gravose.

A quanto si apprende da fonti giornalistiche Cassese ritiene che la condanna sia ingiustificata. Essa sarebbe infatti motivata dalla sola volontà di colpire Amazon per la sua dimensione, piuttosto che per un reale abuso, e un simile approccio farebbe regredire l’evoluzione del diritto antitrust di un secolo, quando si cullava la romantica aspirazione del “piccolo è bello”, sacrificando parametri e obiettivi di efficienza che al contrario dovrebbero ispirare la politica economica e, con essa, l’azione antitrust.

Cassese infine avrebbe rimpianto l’approccio dialogante e costruttivo che aveva caratterizzato l’azione della nostra Autorità in passato, ritenendo evidentemente che l’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dalla legge debba essere solo un’extrema ratio.

Non conosco nel dettaglio la fattispecie oggetto del procedimento e neppure gli atti dello stesso: non mi è pertanto possibile esprimere valutazioni approfondite sul provvedimento dell’Agcm.

Posso però affermare che a una prima lettura le censure mosse dall’Autorità ai comportamenti commerciali tenuti da Amazon, fondate su di una fattispecie classica di abuso (i cosiddetti tying contract, oltre a condizioni commerciali eccessivamente gravose), appaiono ben costruite, argomentate e in linea con la giurisprudenza europea e nazionale.

Mi permetto però di dissentire dalle tesi attribuite dalla stampa al professor Cassese, non tanto in relazione alla critica al provvedimento in questione, quanto in relazione all’affermazione che siamo in presenza di una regressione di un secolo nel diritto antitrust.

A cosa serve l’Antitrust

Il diritto antitrust, lo dice il suo stesso nome, nasce per combattere le concentrazioni di potere economico, ritenute, già oltre 130 anni fa negli Stati Uniti d’America, pericolose per la democrazia, per la sovranità dello Stato e per la stessa libertà degli individui. Non si tratta di inseguire vuote utopie, si tratta di difendere ciascuno di noi dalle prevaricazioni.

A questo si aggiunga che il liberismo imperante che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni ha prodotto danni forse irreparabili alla struttura dei mercati e all’allocazione della ricchezza, plasmando ogni scelta sull’altare di una mal compresa nozione di efficienza che, sacrificando ogni profilo redistributivo, ha favorito le concentrazioni, creato sacche di potere economico smisurate e acuito le differenze sociali come mai era accaduto prima nella lunga evoluzione del capitalismo.

Da questo punto di vista l’avvento di internet - che sembrava promettere apertura, democrazia e libertà, disintermediando tutte le funzioni, garantendo un flusso informativo infinito e libero accesso a ogni individuo - ha alterato tutti i paradigmi dando avvio all’opportunità di creare nuove imprese e soddisfare nuovi bisogni.

Contro ogni aspettativa, forse a causa della dimensione globale del mercato che internet consente di raggiungere, ha portato alla creazione di imprese giganti, sostanzialmente monopoliste nei loro settori, capaci di espandersi nei mercati a monte e a valle: obiettivo servito da un enorme potere di mercato basato tra l’altro su una quantità smisurata di informazioni sui comportamenti degli individui, di cui è persino difficile immaginare tutti i possibili utilizzi. Combattere questi poteri economici con ogni mezzo in applicazione delle regole non è per definizione una regressione, ma un dovere.

È dunque del tutto evidente che le Autorità antitrust di tutto il mondo si devono occupare di questo fenomeno in tutte le sue sfaccettature, perché ne va della salvaguardia del sistema intero.

Il vento però sta fortunatamente cambiando.

Il caso Amazon

FILE - In this Feb. 9, 2018, file photo, packages move down a conveyor system were they are directed to the proper shipping area at an Amazon Fulfillment Center in Sacramento, Calif. California becomes the first U.S. state to bar warehouse retailers, like Amazon, from firing workers for missing quotas that interfere with bathroom and rest breaks. (AP Photo/Rich Pedroncelli, File)

Le Autorità antitrust stanno studiando le vie per attenuare lo strapotere economico di queste imprese. Per esempio, con riguardo ad Amazon, è dubbio che l’impresa che funge da market-place possa integrarsi a monte e a valle mettendosi in concorrenza con i suoi stessi clienti di cui conosce ogni dettaglio commerciale.

Inoltre, il capitalismo sembra orientato a recuperare valori sociali, in nome della sostenibilità anche ambientale della sua evoluzione. Principi e valori scolpiti nei trattati europei, ma per troppo tempo ignorati da regolatori e imprese, stanno forse facendo capolino non solo nelle politiche gradualmente adottate dai governi, ma anche nella mentalità delle imprese. E questo anche per la spinta delle nuove generazioni e per l'obiettiva esigenza di cambiamento che l’emergenza climatica sembra imporre.

Anche da questo punto di vista la politica di Amazon e in definitiva il suo stesso modello di business meriterebbe di essere attentamente analizzato.

Se da un lato la pubblicità ci bombarda di immagini di scatole con il sorriso e di mezzi ecologici super scintillanti, sempre con il sorridente logo, che portano nelle nostre casette l’ultimo capriccio, l’azienda ci informa che è stato dato il via alla ristrutturazione della flotta aziendale e pubblicizza i mezzi elettrici destinati a raggiungere le nostre case.

Peccato che la campagna è di quasi due anni fa e a me non è mai capitato di vederne uno in giro per le nostre città. Anzi mi è sempre capitato di vedere mezzi obsoleti, che emettono fumi neri di diesel fuori corso, privi di loghi, condotti in maniera dissennata, parcheggiati senza alcun rispetto del prossimo. E credo che non sia soltanto una mia esperienza.

La verità è che il modello di business di Amazon, che ha creato uno standard a cui tutti i concorrenti si devono adeguare, è di per se stesso insostenibile, almeno nelle città. Due i profili critici: 1) la circolazione con effetti nefasti in termini di ingorghi, inquinamento, pericoli; 2) gli effetti sul commercio al dettaglio. I due temi non sono scollegati.

Amazon batte la concorrenza sull’efficienza del servizio e batte il commercio al dettaglio perché soddisfa i bisogni dei consumatori, senza che essi debbano neppure farsi carico di uscire di casa, praticando prezzi spesso persino più convenienti del commercio tradizionale.

Peccato che questo magico risultato, basato su un illecito apparentemente lieve e innocente come la sosta vietata, comporta lo scarico sulla collettività di un costo elevatissimo di cui Amazon non subisce alcuna conseguenza. Anzi quel costo sociale è la chiave della sua efficienza.

Se gli autisti dovessero parcheggiare correttamente rispettando le mamme con le carrozzine, le strisce pedonali, gli accessi per i portatori di handicap, la circolazione delle biciclette, il flusso del traffico delle altre autovetture e gli incroci, l’efficienza del modello svanirebbe sia in termini di tempo, sia in termini di costi.

La consegna non avverrebbe in 24 ore e il costo non sarebbe incluso in Prime, il cui stesso meccanismo andrebbe attentamente scrutinato. Il costo di tutte queste inefficienze è pagato da tutti noi e non da Amazon che internalizza i profitti ed esternalizza i costi come spesso accade ai monopolisti.

Chi paga il conto 

Il tema delle inefficienze sociali imposte da Amazon e da tutto il sistema delle consegne a domicilio comprende gli effetti epocali che si stanno determinando sul commercio al dettaglio: nel sostanziale disinteresse di tutti si sta trasformando il volto delle nostre città. Anche questo è un tema di grande portata sociale.

Dietro ogni negozio che chiude ci sono una o più famiglie che si devono reinventare la vita, mentre i posti di lavoro creati da Amazon sono un numero incomparabilmente inferiore.

Nel frattempo le nostre città, fiore all’occhiello della nostra cultura e del nostro modo di vivere, stanno diventando più tristi, più buie e meno sicure con sfilze di locali commerciali sfitti.

Sembra forse un’utopia ma la prima azione per difendere il mondo da Amazon la devono fare gli amministratori locali, dando mandato alla loro polizia locale, anche mediante l’uso della tecnologia, di bloccare lo scempio che è tutti i giorni sotto i nostri occhi distratti.

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