Continuano a farsi sentire gli effetti della “tempesta perfetta” creata in Europa dai primi passi della seconda amministrazione Trump. Sull’onda delle ripetute allusioni a un inevitabile disimpegno di Washington dal continente, e di fronte alla sua brusca e cinica sospensione del sostegno militare a Kiev, pochi giorni fa i presidenti uscenti della Commissione del Bundestag che controlla l’attività dei servizi segreti hanno apertamente evocato l’opportunità di un nuovo “formato” per la cooperazione intra-europea in materia di intelligence.

Un formato – battezzato Euro Eyes – che garantisca «agli stati forti di scambiare e circolare informazioni sensibili in modo rapido e sicuro, e su basi legali chiare». In questi giorni, in effetti, si parla molto di dipendenza militare dell’Europa dall’America, ma molto meno della sua limitata capacità di acquisire e mettere in comune in modo autonomo l’intelligence necessaria per la propria sicurezza.

Il Sitcen

L’idea, ancora una volta, non è del tutto nuova. Già un quarto di secolo fa, quando l’Ue cominciò a muovere i suoi primi passi sul fronte della sicurezza esterna con le missioni di supporto della pace nei Balcani, paesi come Austria e Belgio avevano proposto di creare una “Cia” europea.

Ma è stato soltanto dopo l’11 settembre che alcuni partner (i quattro maggiori, appunto, assieme a Spagna, Olanda e Svezia) hanno dato vita presso il Consiglio a un Joint Situation Centre (Sitcen); e soltanto all’indomani dell’attentato alla stazione Atocha di Madrid, nel 2004, che vi hanno associato una cellula anti-terrorismo.

Nel 2012 il Sitcen – una struttura civile sottoposta all’autorità dell’Alto rappresentante – è diventato una direzione (Intcen), con uno staff di circa 70 funzionari da tutti i 27 paesi membri, e lavora in stretto contatto – nell’ambito del Servizio di azione esterna dell’Unione – con la cellula di intelligence legata alle strutture militari comuni.

Queste strutture, tuttavia, non dispongono di una capacità propria di raccogliere informazioni: le ricevono – per poi filtrarle e processarle – dai servizi nazionali dei 27, su base volontaria e discrezionale, e soprattutto in relazione alle aree in cui l’Ue opera con le sue missioni. Anche per i diversi standard di classificazione dei dati, non hanno neppure rapporti formali con i servizi della Nato (che qualche anno fa ha creato, accanto all’intelligence militare, una divisione civile che si occupa anche di cyber e attività “ibride”), mentre la Commissione ha antenne proprie ma limitate alle sue aree di competenza, tutte strettamente civili.

L’intelligence “esterna”

L’Ue in quanto tale, insomma, non ha al momento i mezzi e/o le competenze per produrre intelligence autonoma, e la sua capacità complessiva non è certo aumentata dopo Brexit.

L’Unione ha sviluppato sì al proprio interno una cornice tipo “Fbi” – anche se priva di un’autorità esecutiva “federale” unica e autonoma – che ha facilitato la lotta al terrorismo e alla criminalità a livello transnazionale: agenzie come Europol e Eurojust, assieme al mandato di arresto europeo e al Sistema di informazione Schengen, hanno creato una base normativa e di dati – con esempi di best practice – di cui hanno notevolmente beneficiato le autorità nazionali, che restano tuttora responsabili per il law enforcement.

Ma il business dell’intelligence “esterna”, per così dire, non si presta particolarmente a un formato multilaterale a 20 e più partecipanti. La cooperazione fra servizi e agenzie nasce e cresce su base soprattutto bilaterale, come quid pro quo di informazioni di interesse reciproco raccolte attraverso risorse umane (Humint) e tecnologiche (Sigint) sviluppate nel corso del tempo e, spesso, a costi notevoli.

Se la cooperazione porta risultati, porta anche fiducia reciproca e nuovi scambi, ma sempre con una qualche simmetria fra gli input e le capacità dei vari contraenti: una palese asimmetria fra haves e have-nots – per parafrasare Hemingway – complica la cooperazione e intacca la fiducia, soprattutto se qualcuno si dimostra meno affidabile.

E molto contano anche le affinità politico-culturali fra i diversi attori, come nel caso di Five Eyes, la formidabile rete di intelligence che, fin dagli anni Cinquanta, riunisce i cinque paesi anglosassoni (Usa, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda), e che include anche il celebre sistema di sorveglianza globale delle telecomunicazioni Echelon.

Il ballon d’essai dei deputati tedeschi merita insomma di essere rilanciato e discusso – soprattutto se a essere messa in dubbio sarà l’affidabilità di Washington – ma con la consapevolezza che può esigere una selezione all’interno dei partecipanti Ue e un’inclusione di paesi non-Ue (a cominciare da Londra). Come dimostrano anche altre iniziative in discussione in questi giorni, le “geometrie variabili”, che ancora pochi anni fa erano considerate un dispositivo per indebolire la costruzione europea, rappresentano forse oggi il solo modo per rafforzarla e difenderla.


Antonio Missiroli è stato consigliere alla Commissione europea, direttore dell’Istituto di studi per la sicurezza dell’Ue, e segretario generale aggiunto della Nato. Ha insegnato a Sciences Po, al Collegio d’Europa di Bruges, a SAIS Europe e alla Scuola Superiore Sant’Anna.

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