Cento anni fa nasceva lo storico-giornalista che squarciò la coscienza storica degli italiani, raccontando della brutalità delle aggressioni ai civili, degli stermini, dell’uso di gas nervini, di ogni genere di violenze
A pensarci bene il pregiudizio razzistico è figlio, in qualche modo, della necessaria socialità dell’essere umano. Insomma: non si può essere “razzisti” se si è da soli.
Secondo Freud (“Il disagio della civiltà”, 1929) si tratta di una degenerazione del «narcisismo delle piccole differenze», proprio perché la coesione del gruppo si mantiene dichiarando gli altri «inferiori».
Il conforto d’essere accolto in un gruppo, proiettando la parte negativa di sé all’esterno, è, dunque, il premio che tocca all’individuo. Ovviamente le scienze della mente e dei comportamenti sociali hanno lungamente lavorato intorno a questa inquietante inclinazione, del tutto infondata dal punto di vista biologico, genetico, antropologico.
Come spiegarono gli antropologi Fabietti e Matera, il razzismo è una falsa narrazione del passato che ne esalta alcuni elementi per giustificare la pratica dell’odio nei confronti degli altri. Come dimostrò Tajfel con il “paradigma del gruppo minimo”, l’appartenenza al “gruppo” si rafforza attraverso la separatezza enfatizzata, l’alterità marcata, la discriminazione e l’odio nei confronti dell’altro gruppo.
Da questo dobbiamo desumere che in noi covi un insopprimibile sentimento razzistico? Forse non necessariamente: dipende dalla falsità della narrazione in cui siamo calati. Paradigmatici furono gli studi di Angelo Del Boca, storico dell’avventura coloniale italiana in Africa, giornalista d’inchiesta, saggista, che capovolse con le sue scomode verità la narrazione assolutoria degli “Italiani brava gente” nei lunghi anni d’invasione in Libia e in Africa Orientale.
Quest’anno cade il centenario dalla nascita dello storico, peraltro in un contesto di dimenticanza che contrasta con il gusto celebrativo che viene in genere con molta generosità largito in occasione delle ricorrenze a cifra tonda degli italiani illustri.
Probabilmente il personaggio continua a suscitare, dopo 60 anni dall’uscita del suo primo lavoro sulla guerra d’Etiopia, un qualche disturbo ad una autorappresentazione collettiva che non tollera di riconoscersi nelle vesti degli invasori cattivi.
Angelo Del Boca fu senza dubbio il maggiore storico del colonialismo italiano, che attinse da archivi ufficiali sepolti nei meandri delle istituzioni pubbliche, come il “Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa”, impegnato a non sfregiare il mito della diversità italiana nell’invasione coloniale, come se il colonialismo in sé non fosse già una irreparabile e catastrofica violenza contro un popolo sovrano nel suo territorio, rilanciando l’immagine del portatore di civiltà.
E invece lo storico-giornalista squarciò la coscienza storica degli italiani, raccontando della brutalità delle aggressioni ai civili, degli stermini, dell’uso di gas nervini, di ogni genere di violenze. Nella giusta convinzione che la rimozione del velo omertoso avrebbe giovato ad una nazione che veniva invitata così a fare i conti sul suo passato, senza infingimenti e condiscendenze.
I nemici
Naturalmente Del Boca, sovvertitore della narrazione rassicurante, collezionò parecchi nemici: la destra nostalgica, naturalmente, ma anche una qualche riluttanza da parte dell’Accademia, almeno in un primo tempo, perché veniva invitata a fare i conti con un pezzo di storia trascurato.
Celebre resterà la sua aspra dialettica con Indro Montanelli (volontario in Etiopia negli anni trenta) che contestò dalle colonne del Corriere della Sera l’uso dei gas letali da parte dell’esercito italiano, salvo poi dover chiedere scusa al collega, di fronte all’evidenza dei documenti da lui pubblicati.
La sua capacità di scrittura, allenata alla narrazione giornalistica, attraversò tutti i suoi 70 libri raggiungendo un pubblico vasto che incluse lettori fuori dal recinto dell’Accademia. Il successo di pubblico rappresentò anche la carta vincente: fosse rimasta in un ambito più ristretto la sua ricerca, scomoda ma necessaria per il raggiungimento di una consapevolezza storica collettiva, probabilmente la falsa narrazione buonista non sarebbe stata scalfita.
Un particolare: per instillare un sentiment “colonialista” ( che contiene, ovviamente, dosi massicce di razzismo) nel popolo italiano si cominciò fin dall’età giolittiana a fare propaganda massiva fin dalle scuole elementari, persino con abbecedari e giochi dell’oca che enfatizzavano la superiorità del bambino bianco su quello nero. Perché, come si diceva, non nasciamo razzisti, ma la narrazione orientata può farci deragliare verso la parte sbagliata.
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