Non c’è bisogno di far riferimento ai meravigliosi affreschi sul termopolio riaffiorati a Pompei per sapere quanto è importante l’immagine nelle vicende umane. Anche la pandemia, che è causata da un elemento invisibile ed è descritta nei suoi effetti da grafici che per definizione non sono figurativi, è stata narrata per istantanee e sequenze. La più potente, a livello globale, è stata quella dei veicoli militari che trasportano le salme fuori da Bergamo, dove i crematori non riuscivano a stare al passo con la morte.

L’arrivo del vaccino è in un certo senso il rovescio di quella sequenza tragica, con i convogli civili che portano ciò che ci permetterà di stare al passo con la vita, e quindi avrebbe potuto, e forse dovuto, essere immortalato con un analogo grado di tensione drammatica. Invece ci siamo trovati davanti agli occhi Domenico Arcuri che gigioneggia.

Il commissario a qualunque cosa non ha perso l’occasione di assembrarsi davanti all’ospedale Spallanzani di Roma per mettere il suo volto mascherato sull’operazione, una piccolezza provinciale ma umanamente comprensibile; poi, sopraffatto dall’emozione, non ha resistito alla tentazione di trasformare la scena in una sequenza da Istituto Luce.

La mano s’è allungata sulla scatola saldamente tenuta fra le braccia da uomini in camice – cioè degli scienziati, quelli che dovrebbero occuparsi di queste cose – e il commissario ha goffamente tenuto una stringa pendente mentre veniva scaricato il prezioso contenuto. Sul momento fatale è stato messo così in sovrimpressione un messaggio per nulla subliminale: è il commissario che vi porta il vaccino, è lui l’artefice della vostra speranza, a lui obbediscono anche le primule, date una carezza ai vostri bambini e dite loro che è la carezza del commissario.

Tutta la scena sembrava disposta per far apparire sobria, al confronto, la “mask diplomacy” esercitata dal Politburo cinese durante prima ondata, quando il regime inviava dispositivi di protezione in occidente con le bandierine, i dolcetti della fortuna e i medici pronti a rimboccarsi le maniche. Forse dopo essersi esercitato nella minaccia di querele ai giornali in conferenza stampa non poteva negare al paese un’altra performance tratta dal manuale dello strongman, ma senza certi eccessi stilistici putiniani, del genere cavalcate a torso nudo nella tundra.

Per la prima serata ha preferito un look a metà fra un aiutante di Babbo Natale e l’Altare della patria. Nemmeno il vestiario è un dettaglio faceto per i personaggi che hanno responsabilità pubbliche, specialmente per chi ambisce al ruolo di supremo influencer della scena politica.

«Arcuri che va allo #Spallanzani e fa finta di scaricare le fiale del vaccino dal furgone è una roba di cui anche l’Agenzia Stefani si sarebbe imbarazzata a dare conto», ha twittato lucidamente Paolo Madron, mentre i telegiornali davano massima esposizione allo stesso commissario che sfidava la matematica raccontando di impossibili confronti con le prime dosi consegnate in Germania. E mentre altri paesi, senza fanfare, iniziavano le operazioni di distribuzione.

Le parole, poi. Nel giorno dell’arrivo del vaccino in Italia Arcuri ha ripetuto una quantità spropositata di volte il termine “simbolico”, che nel Cielo incarnato di Pavel Florenskij è denso di significati metafisici e gravido di implicazioni per il destino dell’umanità intera, in bocca al commissario viene automaticamente retrocesso al suo valore colloquiale: è simbolico come è simbolica una cifra, cioè non vale niente.

È stata, insomma, una giornata di “emozioni”, come ha detto Arcuri commissariando anche quelle, trascurando il fatto che le persone sapranno trovare da sole ottimi modi per emozionarsi quando il piano vaccinale non sarà più simbolico. Della giornata della speranza rimane, nel repertorio collettivo delle immagini, solo qualche cartolina di propaganda.

 

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