L’arresto in Francia di 10 ex terroristi, macchiatisi di fatti di sangue negli anni Settanta, ha suscitato soddisfazione ma anche perplessità per il rivangare una storia vecchia di quasi due generazioni. La vicenda offre lo spunto per ripensare gli anni spesso definiti, con una ottica strabica, di piombo. Furono anni contrassegnati dalla violenza politica, a bassa e alta intensità. La bassa intensità, la violenza quotidiana di risse e intimidazioni, di agguati e di pestaggi, produsse il terreno di coltura per l’alta intensità, costellata di sequestri, gambizzazioni, uccisioni e bombe. La violenza rossa e nera, è stata simmetrica solo nel conto dei morti. Le “cifre crudeli” – così si intitolava la ricerca condotta nel 1984 dall’Istituto Cattaneo, a cura di Donatella Della Porta e Maurizio Rossi – danno conto della diffusione forse unica nel contesto europeo degli episodi della bassa intensità: sono stati censiti 4.763 atti di violenza più quasi 9.000 attentati senza danni alle persone. Dal 1969 al 1975 la violenza è espressa quasi esclusivamente dalla destra, mentre dopo, dal 1976 al 1982, la bilancia si inverte. Quanto la bassa intensità dei primi anni, monopolizzata dalla destra, sia in connessione con l’impennata terroristica diffusa a sinistra nel periodo successivo è questione aperta.

Quanto avvenuto nella società italiana di quegli anni è in connessione con una lunga tradizione politico-culturale della nostra nazione. Riflettiamo su come nasce l’Italia: non è una conquista militare di eserciti. È in gran parte – e questo è ben vivo nell’immaginario popolare e di una parte della élite – il frutto di una lotta generosa di persone che si sono “immolate” per raggiungere l’obiettivo dell’unità nazionale. Il successo, ancora oggi affascinante, dell’avventura dei Mille aveva creato nell’humus culturale italiano l’idea che l’atto individuale eroico, o il piccolo manipolo ardimentoso, potessero smuovere il mondo. Gli anarchici più qualche repubblicano irriducibile di fine secolo, gli insorti della settimana rossa nelle Romagne del 1914, gli squadristi fascisti, e infine i partigiani, sono tutti legati da uno stesso filo, per quanto di colore e idealità così diverse: che l’azione armata porta i suoi frutti. E che la violenza è parte inscindibile, necessaria, dell’azione politica. Proprio l’epopea partigiana venne tante volte evocata dal terrorismo rosso rivendicando una sorta di, peraltro ignobile, continuità. Così come, dall’altra parte, il mito del “soldato politico” evocato dal teorico della destra radicale, Julius Evola, del (super)uomo che si erge contro le rovine del moderno per cercare di fermarne la caduta, esaltava l’atto esemplare.

Da una parte e dall’altra la genealogia ideale del terrorismo stava nella esaltazione, non solo specifica e diretta quanto sotterranea e di lungo periodo, della violenza. Se si vanno a rileggere gli slogan truci e le simil-riflessioni di giornaletti e cattivi maestri di sinistra degli anni Settanta, traspare come la “violenza rivoluzionaria” fosse la moneta corrente di ogni iniziativa. «Ira vince perché spara» era scritto sui muri di tante università.

La scomparsa

Per fortuna, a quella fascinazione distruttiva nel mondo giovanile riuscì a farsi strada una visione diversa che predicava e praticava qualcosa di inedito per il mainstream cultural-politico dei tempi, e cioè la non-violenza: il rifiuto della criminalizzazione, e quindi della potenziale eliminazione, del politicamente diverso. La maieutica pannelliana della non-violenza, pur partendo da posizioni di estrema minoranza, ha gettato semi i cui frutti, agli inizi degli anni Ottanta, sono stati raccolti dalle due sponde. Sia da sinistra, con gli ex di Lotta Continua in prima fila, sia da destra, vengono lanciati messaggi di pacificazione e di una possibile convivenza tra avversari. La guerra civile a bassa intensità si esaurisce. Il movimento giovanile della Pantera del 1990 lo dimostra appieno: c’è spazio per tutti, c’è dialogo tra le parti. Rimangono spasmi di terrorismo, pensiamo alla strage di Natale del treno 904, nel 1984 , ancora una volta vicino a Bologna, e agli ultimi omicidi dei brigatisti (Roberto Ruffilli, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi e i poliziotti che cercarono di arrestare i responsabili); ma la stagione della legittimazione della violenza politica è finita.

Nessuno ora, e da tempo, inneggia più alla rivoluzione armata. Non c’è più un humus culturale favorevole a quei miti come in quel decennio. Tuttavia meglio tener presente il ricordo di quel periodo perché la nostra società ribolle di insoddisfazione. La bassa crescita per vent’anni, la precarizzazione del lavoro e prospettive di vita incerte, diffondono insofferenza e frustrazione. Sentimenti che in parte si sono rafforzati con la crisi pandemica ma che circolavano da tempo. I sondaggi ci dicono che quasi la metà dei cittadini non crede più ad un processo riformatore per migliorare le cose, bensì invoca una “rottura rivoluzionaria”. Forse è solo uno sfogo, ma comunque è compito della politica evitare che questo sentimento incendi di nuovo la società. Anche per questo ricordare il passato aiuta.

 

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