Le amministrative hanno prodotto un effetto sistemico, per quanto basato su una percezione in parte distorta dei fatti: con il centrosinistra di nuovo pimpante, i Cinque stelle (apparentemente) ridimensionati e persuasi della sua ineluttabilità, ritorna un bipolarismo molto simile a quello che abbiamo conosciuto dalla metà degli anni Novanta alla metà del decennio scorso.

Simile non solo perché la competizione ha alla fine riguardato esponenti dei due poli tradizionali, ma anche perché il risultato, come è capitato spesso in quel ventennio, è stato in larga parte determinato dalla risacca dell’astensionismo che ha riguardato in maniera asimmetrica una parte rispetto all’altra.

Era prevedibile che, siccome l’attenzione si sarebbe concentrata sulle cinque città più grandi, e siccome l’elettorato delle grandi città è marcatamente più progressista rispetto al resto del paese, le amministrative sarebbero state una cura ricostituente per l’autostima dei dirigenti Pd e un incoraggiamento per il Nuovo ulivo.

La competizione tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini ha prodotto candidati deboli. La percezione che abbiano soffiato sul fuoco delle paure ataviche anti vaccino o siano contigui agli estremisti che sobillano e guidano le piazze impazzite dei no-pass ha contribuito a tenere a casa molti loro elettori. Da una analisi accurata dei dati territoriali intra-urbani forse si capirà meglio quali componenti sociali hanno tradito di più Meloni e Salvini.

Quella secondo cui si sarebbe verificato un super-astensionismo delle periferie andate in passato a destra mi pare una congettura diffusa per ora senza controllare correlazioni e serie storiche.

Limitare l’entusiasmo

La prima prova tecnica del Nuovo ulivo ha funzionato fino a un certo punto. Ad esempio, a Torino, città per la quale abbiamo già tutti i dati e tutte le analisi dei flussi, gli elettori Cinque stelle del 2019 (già dimezzati rispetto al 2018 e alleggeriti della quota tendente a destra) si sono divisi circa a metà, al primo turno delle amministrative, tra il voto alla loro candidata Valentina Sganga e l’astensione, con un piccolo rivolo verso il Pd, e poi di nuovo, tra quelli che avevano votato per la Sganga, circa a metà tra l’astensione e il voto a Lo Russo al secondo turno.

La vittoria del centrosinistra pur essendo stata superiore alle attese non ha avuto dimensioni “mai viste”. Anzi, sono abbastanza simili a quelle a cui eravamo abituati, a fasi alterne, nel ventennio bipolare, e che si erano viste proprio a vantaggio del centrosinistra prima dell’avvento dei due populismi nel ciclo 2013-2018.

A Roma Roberto Gualtieri rimane di poco (4 punti percentuali) sotto al risultato che ottenne al secondo turno Ignazio Marino nel 2013. A Torino Stefano Lo Russo ottiene qualche punto percentuale in più di Piero Fassino nel 2011 (56 per cento), quando il candidato Pd vinse però al primo turno, con 255.242 voti, contro i 140.200 di Lo Russo. Nel frattempo, le intenzioni di voto stimate a livello nazionale continuano a indicare che i tre partiti del centrodestra arrivano insieme intorno al 47 per cento, il Nuovo ulivo ci arriva solo cucendo un puzzle fatto di 7-8 sigle (Pd, M5s, Az, +E, Iv, Sin, Mdp, Verdi), ammesso che si possano cucire anche i relativi voti.

Niente di nuovo sotto il sole? No, perché il risultato, oltre a decidere chi governerà quelle grandi città (e non è poco), ha due implicazioni rilevanti, a destra e a sinistra. Sommato con le dichiarazioni fatte da Enrico Letta al momento della sua entrata in carica da segretario, toglie quasi tutto il residuo terreno che era rimasto sotto i piedi di chi, dentro e intorno al Pd, spinge per un ritorno a un sistema elettorale puramente proporzionale.

Senza un incentivo determinato dalle regole del gioco, il Nuovo ulivo è già morto, così come senza la legge Mattarella l’originale non sarebbe mai nato. Che siano state le periferie sofferenti o la classe media moderata ad abbandonarlo disertando le urne, nel centrodestra Salvini & Meloni sono sotto accusa. Almeno in questa fase, sembra proprio che non possano al tempo stesso occhieggiare agli estremisti, farsi la guerra tra loro e ambire a rappresentare metà del paese. Sono i principali indiziati, ma solo per chi guarda la storia troppo da vicino.

Se l’elettorato moderato di centrodestra non ha rappresentanza e il derby si gioca tra due sovranisti, la colpa principale è di Silvio Berlusconi, che pur di rimanere titolare della sua ditta ha sempre impedito l’affermazione di un leader o una leader che lo sostituisse. Dopo le amministrative il vuoto che ha prodotto, da quella parte, si vede ancora di più.

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