Chi ha curato l’immagine pubblica di papa Benedetto e poi di papa Francesco ha testimoniato che nel primo caso l’80 per cento degli sforzi era volto a smontare i pregiudizi negativi dei media e il 20 per cento a favorire quelli positivi, mentre nel caso di Francesco è successo il contrario.

Papa Ratzinger è stato spesso confinato nel territorio indistinto del conservatorismo. La sua prima produzione teologica veniva registrata come “liberale” e “conciliare”, quella successiva, no.

Ma il suo legame con la tradizione era  sistematicamente aperto alle sollecitazioni del moderno e delle sue domande, arrivando a percepire la possibile fecondità della stagione post-moderna, senza però entrarci, senza prendere congedo dal territorio della cristianità “intransigente”.

Passando a lato della complessità del suo pensare teologico, della sua attività di governo nel servizio petrino e della sua biografia personale, è sufficiente richiamare alcuni fondamentali discorsi sul suo approccio alla modernità (Collegio des Bernardins, Parigi 2008), sulla interpretazione del Vaticano II (discorso alla curia, 2005), sulla democrazia e le sue decisioni (Parlamento federale tedesco, 2011).

La modernità: i pericoli e i frutti positivi

 In una celebre conferenza a Montecassino, pochi giorni prima di essere eletto papa (Subiaco, 1 aprile 2005), aveva riconosciuto che la cultura illuministica conteneva valori importanti e condivisibili, ma che  poteva diventare «la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’umanità», arrivando a denunciare il dogmatismo del relativismo.

Nel discorso parigino, costruito sul ruolo del monachesimo nel passaggio alla cristianità, sottolinea la tensione fra legame alla Scrittura e la libertà.

Tale tensione «si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio».

«Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo».

Le due ermeneutiche conciliari

L’atto decisivo della Chiesa cattolica di accettazione della modernità è stato il concilio Vaticano II. Esso non significa una resa al pensiero contemporaneo, una semplice assimilazione ad esso, quanto piuttosto il riconoscimento di ciò che è “già suo” nel moderno e del contributo ecclesiale per dare futuro alle conquiste più significative degli ultimi secoli.

I due orientamenti sono indicati da papa Ratzinger nel discorso alla curia con le contrapposte: ermeneutica della discontinuità e della rottura di contro all’ermeneutica della riforma. La prima «rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare».

La seconda si attiene ai testi senza pretendere  di interpretare «lo spirito» del concilio, portando evidente frutti di fecondità. Si entra nella modernità con la piena integrità del “soggetto” ecclesiale.

Democrazia tra valori e trascendenza

La democrazia non è in grado di alimentare i valori su cui è costruita. Per questo i valori non negoziabili indicano non tanto il limite del diritto positivo, quanto l’intrinseca apertura alla trascendenza del vivere civile.

Davanti al parlamento tedesco Benedetto XVI ricorda «che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo  e dell’umanità, il principio maggioritario non basta».

Vi è un diritto naturale espresso nell’ethos che non invalida gli straordinari risultati del concetto positivista di natura e ragione, ma impedisce che il positivismo del diritto riduca le altre convinzioni, fra cui in particolare quella religiosa, a semplice sottocultura.

Il grande sforzo dell’impresa teologica e culturale sistematica di papa Ratzinger si scontra con lo sfrangiarsi della cultura della postmodernità, la sua argomentazione con il moltiplicarsi dei flussi narrativi dei contemporanei.

Il semplice aggiornamento della dottrina non esce dalla forzosa coerenza del sistema intransigente.

Alla riproposta della legge naturale come terreno di intesa con l’insieme del moderno si contrappone l’ispirazione conciliare dei “segni dei tempi”.

Alla coppia «dottrina-legge naturale» si sostituisce tendenzialmente nell’attuale magistero di Francesco quella dei «segni dei tempi – nella storia comune».

Al centro non vi è la chiesa e il suo ruolo, ma il Vangelo e le sue provocazioni.

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