Gilberto Pichetto Fratin non si è mai ripreso dal trauma di aver scoperto che la nomina a ministro della Pubblica istruzione era frutto di un errore subito corretto da Giorgia Meloni, e che quindi gli toccava invece il ministero dell’Ambiente.

Argomento del quale, l’ambiente, lui chiaramente non si è mai occupato, come non perde occasione di dimostrare.

Basta prendere l’intervista alla Stampa in cui denuncia la “speculazione” sui prezzi della benzina che ha spinto il prezzo alla pompa ai drastici rincari di capodanno sia colpa delle compagnie petrolifere avide e non della scelta del governo di non confermare il taglio delle accise.

Se le accise salgono, è inevitabile che salga il prezzo per il consumatore finale, in molti casi sopra i 2 euro al litro.

Ora, proviamo a considerare l’argomentazione di Pichetto, che è leggermente meno assurda di come sembra: il governo, sostiene Pichetto, ha ridotto le accise quando i prezzi della materia prima era molto alto, ora che è sceso si possono rimettere. Ma se il prezzo va troppo in alto, è perché le aziende approfittano del fatto che i consumatori si sono abituati a prezzi alti per un ulteriore rincaro (il ritorno delle accise) che si somma ai precedenti.

Un ragionamento che può sembrare di buon senso soltanto a chi non conosce neanche vagamente l’argomento trattato. Le accise sono tasse in euro (anzi, centesimi di euro al litro) non in percentuale.

Se si tolgono, il prezzo della benzina si riduce in automatico, se si aumentano sale in automatico.

Proprio il fatto che il prezzo vari in modo così diretto dimostra che il ragionamento di Pichetto non regge: che le compagnie petrolifere siano in concorrenza perfetta o in oligopolio, poco cambia, fissano il prezzo che consente loro di massimizzare il profitti.

Poiché la domanda di carburanti è molto rigida (dipende poco dall’oscillazione dei prezzi), appena salgono i costi, le imprese li trasferiscono immediatamente sul prezzo finale, che si tratti di materia prima o tasse.

Quando scendono, invece, possono applicare una riduzione graduale e coordinata per aumentare i profitti: questo lo fanno spesso quando scende il prezzo del petrolio, anche perché se lo comprano a prezzi alti e vendono benzina il cui prezzo sta scendendo rischiano di rimetterci.

Comunque, nel caso di Pichetto stiamo parlando di rincari, e l’effetto è visibile, immediato e previsto dal governo: gli interventi sulle accise sono stati di 9,1 miliardi per tutto il 2022, moltissimi soldi che hanno dato benefici marginali e spalmati su tutta la popolazione che ha un veicolo di proprietà, ricchi inclusi.

Quindi l’intervento era già criticabile perché iniquo, ma certo non imprevedibile nelle sue conseguenze: nella legge di Bilancio, addirittura, il governo ha previsto un aumento di gettito dalle accise per il 2023 di 600 milioni di euro che serve a mitigare in parte il costo di quei 9,1 miliardi già spesi.

Il governo sapeva benissimo quello che faceva: a dicembre 2022 la benzina era a 1,7 euro al litro di media, circa come a novembre 2021: prorogare lo sconto sulle accise avrebbe voluto dire spendere altri miliardi di euro per offrire un sussidio al trasporto su ruote rispetto al momento pre-guerra, quando invece nessuno aveva quell’idea.

Ma tornare alla normalità sulle accise significa far salire i prezzi, questo era ed è inevitabile e perfino giusto.

Se poi alcune famiglie bisognose avessero difficoltà, nel medio periodo, a reggere i costi del carburante, molto meglio aiutarle direttamente invece che sussidiare in modo orizzontale l’utilizzo dell’auto privata.

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