Rivolgo un pensiero commosso a Roberta Angelilli, moglie di Andrea.
A tutta la famiglia. A Tony, amatissimo fratello, appassionato e sferzante in Consiglio comunale, che ricordo con commozione, come fosse ora, arringare infaticabile di fronte a me sui banchi dell’aula di Giulio Cesare. A tutta la sua comunità politica. Alla premier Giorgia Meloni, che qui la rappresenta nel modo più alto.
A tutte le persone a lui care.

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Andrea, che responsabilità e che onore che mi hai dato! E mi hai chiesto parole vere.

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Andrea Augello è stato un dirigente forte e creativo della destra italiana. Ben piantato nelle sue idee e nelle sue idealità.
Eppure, costantemente “spigolatore” dei campi avversi.
Curioso e coraggioso nell’ascoltare e anche apprendere da ciò che politicamente era lontano da lui. Sono stato del Pci da quando avevo 14 anni. E poi, alla fine di quel mondo, ho navigato nelle ripetute e difficili trasformazioni che la storia gli ha imposto.

Ma, come Andrea, sempre fedele al convincimento, che la vita e l’umano sono molto più ricchi della pura politica. E che vanno cercati, soprattutto in chi è diverso da te.
 

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Ecco perché Andrea ed io siamo stati avversari e amici. Noi, totus-politici e che indissolubilmente e intimamente abbiamo mischiato vita e politica (come un tempo era abitudine fare) abbiamo via via consolidato un legame privo di ogni diffidenza.

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Tale legame non si limitava al rispetto reciproco. Che pure c’era. Alla lealtà. Che non è mai mancata. Tanto più non era quella scurrile complicità di tutti con tutti, che si manifesta nelle buvette delle assemblee elettive. No. Parlo di amicizia. Una parola assai più importante, impegnativa e definitiva.

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Gli amici si appartengono. Si attraversano. Cercano e trovano assonanze nelle profondità; si fanno “palombari” dell’animo umano.

Si muovono sotto la superficie del semplice agire e della quotidianità. Trovano motivo di interesse tra di loro, persino oltre le scelte importanti e valoriali, che ognuno ha compiuto; nella casualità degli eventi che gli si sono parati di fronte.

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Dove ho incontrato veramente Andrea?

Certamente nel fastidio per gli aspetti subdoli, volgari, maligni della politica. Andrea è stato un combattente, energico e intransigente.
Ci siamo misurati nelle alterne vicende della sinistra e della destra nella nostra regione e nella nostra città, Roma.
Talvolta ha vinto lui. Talvolta è toccato a me prevalere e governare. Non c’è stato un risparmio di colpi. E mai è venuta meno, a ciascuno, la voglia di vincere.

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Andrea sapeva bene che la comunità di destra si affidava molto alle sue invenzioni, strategie, e alla sua capacità di decisione.
Così come, davvero in un tempo ormai passato, a me è toccato guidare, insieme a pochi altri, il destino della sinistra in questi territori decisivi per gli equilibri nazionali.

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Fin dall’inizio del nostro rapporto Andrea, in un incontro un po’ solenne, mi invitò, con un sorriso dolce e aperto, e qualche accenno di divertita ironia, a siglare un patto personale.
Tra me e lui.
Disse: «Nella nostra competizione deve prevalere il senso cavalleresco e l’intelligenza, indispensabili per giocare bene a scacchi. Deve essere bandita, e stroncata, innanzitutto da me e da te, ogni forma di slealtà, tradimento e tendenza furbesca e trasformistica; di quelli che nei rispettivi campi agiscono, con diverse motivazioni, per indebolire l’esercito che dovrebbero servire e per accreditarsi con la parte avversa».

Continuò: «Tagliamo di netto con chi imbastardisce il conflitto. Con chi lo rende inutilmente cattivo; con chi ama l’ombra perché non ha il coraggio di esporsi alla luce del sole. Avevo colto bene la sollecitazione; come promessa e premessa di un’intesa in grado di escludere i trucchi. E fu così. Sapemmo allontanare o rendere innocuo chi mestava nel torbido.

Mantenemmo l’impegno a non degradarci e disonorarci nella competizione, anche la più infuocata.

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Andrea era un vero signore della politica. Amava i vinti. Percepiva nei vinti, una sincerità d’animo e una resistenza, che proprio in quanto vinti, lo contagiava e affascinava.

Si sentiva parte fino in fondo dei vinti. Ne ha ricostruito anche, per esempio nel suo bel libro sulla battaglia di Gela nel 1943, il profilo umano, gli accadimenti che li riguardavano, il silenzio della storia su di essi.

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Mi interessa poco in questa occasione sottolineare il tentativo di spiegargli la mia opinione sulle ragioni storiche del destino dei vinti. Quel destino, Andrea lo aveva introiettato. Fino a rendere difficile pensarsi insieme alla sua comunità come vincitore.


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Era come un’ombra, che lo portava al disincanto verso tanti aspetti della politica di oggi. Intesa come continuo, inevitabile e ripetuto tradimento di qualcosa che andava conservato. Significativa la sua splendida e documentata ricostruzione, come mai era stata fatta prima, in un suo bel libro delle vicende riferite al Santo Graal.


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Ho percepito questo sentimento nel nostro legame, senza alcun fastidio. Perché toccava qualcosa di profondo anche in me.

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Ho rincontrato Andrea anche su un sentimento comune più basico.
Le ragioni delle nostre opposte appartenenze. La scaturigine di una nostra precoce presa di posizione. Il motivo dell’impegno delle nostre vite; che ci ha assorbito interamente.

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Spesso sono le concrete occasioni a farti scegliere la parte politica che, proprio in alcuni momenti, ti pare essere la più adatta per proteggere i sentimenti che provi.

La politica è imprevedibile. Di fronte ad una ferita che si apre all’improvviso, scegli un mondo che poi ti accoglie e ti interpreta nel corso di tutta la tua esistenza.

Io a sinistra, Andrea a destra. Ma l’amicizia l’abbiamo trovata in una spinta comune e radicale, e con esiti opposti, contro il sopruso.

Questa spinta, nella modernità che ha appiattito tutto, pare sfarinata. Ma Andrea, senza retorica, la portava ancora dentro di sé. Disciplinata, tuttavia, da un ragionare rigoroso della sua mente politica.


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Era intollerante, infatti, nei confronti dell’improvvisazione, dell’ignoranza, della comunicazione furbesca e senza pensiero, della marmellata di parole che non scolpiscono nulla.

La mente politica per lui doveva essere alta, stringente, tagliente, corroborata dal sapere, dalle letture, dalla conoscenza della storia.

Se non è questo, diventa ansia piccolo-borghese di promozione sociale, di una migliore carriera, di relazioni furbesche e di convenienza.

La politica è “tecnica regia”. Tecnica capace di coordinare tutto l’insieme delle altre tecniche.

Allora si nobilita. Allora serve. Allora acquista un riflesso e una densità che innalzano il discorso pubblico, piuttosto che degradarlo.

Questo ci dicevamo.

Ma ci dicevamo anche: dentro le mura della politica non si racchiude tutto il senso dell’umano.

Fuori le mura, c’è un magma incandescente di domande, di malessere e di speranze, che spetta ad ogni persona saper governare.
In Andrea ho colto sempre convincimento e passione, ma anche la consapevolezza di mantenere una misura. Un limite.
Perché è sempre un destino sconosciuto che alla fine ci comanda.

I guai vengono quando si smarrisce questa misura.
Come ricorda un autore prediletto a noi, Emil Ciorian: «La mancanza di autocontrollo, di moderazione, è il peccato mortale […] l’uomo scomparirà a causa di un istinto che gli impedisce di fermarsi in tempo. È convinto che l’impossibile non esista […] ma i limiti ci sono. Tutte le generazioni finiscono con il riconoscerli; ma sempre troppo tardi. L’idea del progresso infinito, questo è il male».


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La misura ti induce a prendere sul serio le tue convinzioni, ma a sfidarle continuamente con una ricerca più ampia, più libera, più coraggiosa di ciò che il pensiero umano ha prodotto nei suoi innumerevoli risvolti.
Con Andrea abbiamo condiviso letture, libri, film. Abbiamo parlato tanto di filosofia e di poesia.
C’era un terreno unitario tra di noi di diffidenza verso un’idea illimitata della potenza della tecnica e di un progresso ininterrotto, dentro una storia tutto sommato inevitabilmente finalizzata al meglio.

Ecco la condivisione di alcune splendide pagine di Pasolini, di Benjamin, di Junger, di Ezra Pound, di Splenger, di Gramsci, di Machiavelli e di tanti altri ancora.

Quella corrente culturale dispersa in diverse opzioni politiche, che tuttavia è unita dal realismo pessimista sul procedere della storia.

Quella critica all’alienazione dell’essenza umana, scalzata da uno sviluppo che mercifica e omologa ogni spazio del vivere.

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Andrea era un “uomo in rivolta”. Per usare le parole di Camus. Non soddisfatto mai del presente. Indisponibile al presente. Il suo malessere lo spingeva a guardare prevalentemente al passato. Alla parte del passato che si andava consumando. In questo senso era un conservatore.

La mia rivolta è poggiata di più su un “oltre” da conquistare. Non priva, tuttavia, di quel senso di nostalgia delle cose, che è un sentimento attivo. Perché spinge ad agire per conservarne e realizzarne il senso migliore.

Berlinguer diceva che occorre essere rivoluzionari e conservatori. Tra conservare e rivoluzionare c’è un nesso inestricabile. Vale a dire, il rifiuto di accettare ciò che ti si para d’innanzi. Che promette il benessere, ma produce il malessere.
Il pensiero scomodo che ti rende inattuale. O scandaloso.

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L’ultima volta che ho visto Andrea mi ha parlato della sua malattia, quasi con un sereno distacco. Vai a capire cosa davvero provava dentro. Era un distacco combattivo e al tempo stesso disincantato. Combattivo fino al punto nel quale la palla passa inesorabilmente al destino, al mistero, alle leggi maligne della natura.

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Ecco il disincanto!
È inutile il lamento. C’è qualcosa di enormemente più grande di noi che è velleitario voler governare.

Nell’ottantunesimo “Canto Pisano”, uno dei momenti più alti della poesia del Novecento, Ezra Pound invita a deporre la vanità. Ad accettare l’ordine naturale. A comprendere la gerarchia degli esseri viventi, senza l’illusione di potersi trasformare in Dio.
Ma aggiunge che il “fare” non è vanità.
Il fare è onorare la vita nel mentre essa scorre. Senza diversivi e senza illusioni. È superare il dubbio, che sempre ti fa esitare. E dunque ti impedisce di manifestarti.
Leopardi aggiunge: cosa resta a noi di fare? Osservando l’immensità del cielo che ci sovrasta e la piccola palla della terra spersa nella dimensione infinita dell’Universo. Chi ci salverà? Forse solo una nuova spontanea fratellanza che può nascere dalla coscienza delle nostre precarietà, una social catena per resistere e sperare.


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Andrea fino all’ultimo ha voluto fare. Mi disse di essere felice che Giorgia Meloni lo avesse riproposto al Senato. Gli era parso un segno di sensibilità e di sostegno. Ma il suo fare non si è limitato alla politica. Infatti, si realizzò nell’ambito dei suoi affetti più cari. E circa le responsabilità che sentiva come persona.

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In una bella giornata di sole seduti ai tavolini del Cafè Ruschena, dove eravamo solito vederci, mi lasciò, stringendomi con calore la mano e aggiungendo: “Spero che il decorso della malattia sia lento. So che è inesorabile. So che soffrirò sempre di più. Ma vorrei dare il tempo necessario a mia moglie Roberta, ai miei figli e anche alle persone care, di abituarsi all’idea che presto non sarò più tra loro”.

Andrea fino all’ultimo ha lottato. Per gli altri. Non per sé stesso.

E così questo avversario-amico alla fine se ne è andato.
Per tanti anni abbiamo rullato i nostri rispettivi tamburi, l’uno di fronte all’altro. Abbiamo incrociato le spade e, contemporaneamente, i cuori. Ormai c’è il silenzio. Le spade sono deposte, ma rimane, ancor di più, l’incrocio dei cuori.

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