Ma che razza di ladro è uno che ha un patrimonio personale di sei euro e 45 centesimi depositati in un libretto a risparmio? Senza conti segreti, senza piccole o grandi proprietà intestate, senza una vita di lussi e di sfarzi, dove lo ha nascosto quel milione di euro “distratto” dalle casse dello stato?

C’è una sentenza che non lo spiega e c’è un’indagine un po’ traballante che non ha saputo raccontare sino in fondo le scorrerie che avrebbe compiuto Claudio La Camera, presidente del museo della ‘Ndrangheta di Reggio Calabria, attivista sociale, collaboratore delle Nazioni Unite con progetti sulle carceri messicane, missioni di volontariato in Amazzonia e in Costa D’Avorio, ricerche e studi nella Germania invasa dalle cosche della Locride.

In un’antimafia popolata da approfittatori e mercenari, e che il più delle volte la fanno franca, una vicenda giudiziaria dai contorni confusi ha inghiottito nei suoi gorghi uno dei personaggi più rappresentativi dell’altra Calabria.

Un processo lungo sei anni e una condanna a nove mesi di reclusione (ma con pena sospesa e non menzione nel certificato del casellario giudiziale) ha svelato un’insolita esuberanza investigativa nei confronti di La Camera, ha smontato sette capi d’imputazione facendone rimanere in piedi uno in bilico però, e gli ha restituito anche se solo in parte l’onore.

Era stato accusato di organizzare convegni fantasma, di avere messo su un’associazione finta allo scopo di spremere finanziamenti, di avere lucrato su corsi professionali, di avere sperperato denaro acquistando perfino un pollo di lattice per i suoi cani.

Le cimici e la madre ultraottantenne

Per incastrarlo hanno piazzato microspie nella casa della madre, un’ultraottantenne, ascoltata segretamente e inutilmente nella speranza di trovare la pistola fumante, le prove dei suoi misfatti. Hanno trovato niente, il verdetto di primo grado lo condanna in pratica soltanto per avere pagato in ritardo alcune fatture a commercianti vittime delle estorsioni ‘ndranghetistiche. Niente di più.

A questo punto sarà estremamente interessante leggere, fra qualche settimana, le motivazioni della sentenza per capire come sono stati calcolati i nove mesi di condanna che gli hanno inflitto.

L’impianto accusatorio generale comunque è caduto: non c’è stato ingiusto profitto, non è stato procurato “altrui danno”, non c’è stato illecito arricchimento. Tant’è che ufficiali della finanza, subito dopo il verdetto, hanno “dissequestrato” e restituito quel libretto a risparmio ereditato dal padre con i sei euro e spicci.
Nel corso dell’indagine sono cambiati più volte i capi di imputazione. Prima La Camera risultava in combutta con una quarantina di funzionari, poi era solo a sottrarre circa 400mila euro, poi era sempre solo ma gli euro erano diventati un milione.

Una girandola di accuse, fra le quali l’affitto di un autobus per spostarsi da Reggio a Gioia Tauro per portare solidarietà a un imprenditore vittima qualche giorno prima di una sventagliata di kalashnikov e l’acquisto di “mollette” per fissare i pannelli di una mostra fotografica sulla ‘Ndrangheta.

Tutte spese ritenute “incoerenti” con le finalità della sua associazione antimafia. Con il doveroso rispetto per la magistratura inquirente reggina: forse indagini più approfondite e meno frettolose avrebbero evitato a Claudio La Camera l’onta e il calvario.

La sindaca Girasole

Non è la prima volta che in Calabria i simboli dell’antimafia finiscono nei labirinti della giustizia. È capitato alla sindaca di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, arrestata nel dicembre 2013 per voto di scambio, turbativa d’asta e corruzione elettorale. Era accusata di collusione con il clan Arena, agli arresti domiciliari ha passato 168 giorni.

Assolta in primo grado, assolta in appello, assolta in Cassazione. Dopo quasi otto anni sono affiorate intercettazioni mal trascritte (nomi sbagliati) o mal interpretate, soprattutto è emerso che la sindaca con gli Arena aveva “rapporti non certo idilliaci”.

La questione dell’antimafia è assai scivolosa anche in Calabria, lì dentro ormai c’è tutto il contrario di tutto. Significativo il caso di Rosy Canale, fondatrice del movimento Donne di San Luca, arrestata per avere acquistato auto e vestiti firmati con i finanziamenti statali.

Pur non avendo profili penali hanno fatto scalpore anche quei tre convegni, a Reggio, a Cosenza e Catanzaro, organizzati con ricchi contributi e totalizzando sei presenze nelle tre sale. C’è antimafia e c’è antimafia. Ecco perché non guasterebbe maggiore prudenza.

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