I Cinque stelle dovevano dimostrare che in Italia si poteva fare politica in un modo diverso: senza sprechi, senza personalismi, senza costi, senza intermediazioni, senza rubare e arricchirsi. Ogni loro fallimento si trasforma in un argomento per i loro avversari, che possono così facilmente sostenere come proprio l’esperienza dei Cinque stelle dimostri che nessun altro modo di fare politica è possibile rispetto a quello che abbiamo visto fino alla loro comparsa.

Se provi a vivere senza finanziamento pubblico, poi arriva quello privato, nel caso dei Cinque stelle anche nel modo peggiore (l’armatore Vincenzo Onorato finanziava il sito di Beppe Grillo e offriva viaggi gratis alla famiglia, in cambio di leggi su misura). E se cerchi di impostare una politica francescana poi finisci impelagato in micragnose polemiche sugli scontrini.

Bella l’idea di vivere senza correnti, ma in assenza di meccanismi democratici la competizione tra legittime impostazioni e ambizioni si riduce a trame di palazzo e ricorsi in tribunale, come quello accolto dal tribunale di Napoli che (forse) cancella la presidenza di Giuseppe Conte.  

Uno vale uno è un principio sacrosanto in democrazia, ma poi si scopre che alcuni sono più bravi di altri e magari meriterebbero di chiedere agli elettori un nuovo mandato, ma il limite a due costringe a scegliere tra la coerenza e la competenza. La deliberazione digitale era un’idea interessante, ma i Cinque stelle non hanno considerato il rischio di finire ostaggio della piattaforma (Casaleggio) che, nel suo piccolo, pone le stesse criticità di Facebook se controlla dati e fissa le regole.

Quando gli altri partiti avranno finito di osservare compiaciuti questa disfatta, dovranno interrogarsi sulle sue implicazioni. La disfatta pentastellata significa forse che tutto quanto il Movimento contestava è non solo tollerabile, ma anche necessario nel senso di privo di alternative?

Sarebbe una implicazione ben triste e, tutto sommato, ingiusta, perché nel loro confuso e pasticciato modo di fare politica i Cinque stelle hanno comunque rappresentato una alternativa alla palude romana e hanno costretto il centrosinistra a fare qualche scelta netta, come sulle misure universali contro la povertà.

La fine della rivoluzione grillina – che passi per il collasso interno o altre scissioni – pone alcune questioni, soprattutto al Pd. Il segretario Enrico Letta aspettare il partner interno alla coalizione finisca di autodistruggersi, in modo da ridefinire i rapporti di forza. 

Oppure Letta potrebbe cercare di intercettare quello che resta della spinta innovativa dei Cinque stelle, salvandola dalle meschinerie che ossessionano i vertici del Movimento, e cogliere l’occasione per fare qualcosa di più ambizioso di un “campo largo” di partitini assai asfittico.

Che sia una vera coalizione, una federazione, un nuovo partito: se il Pd pensa di poter prosperare sulla disfatta dei Cinque stelle e recuperarne i voti per inerzia, rischia di sbagliare parecchio i suoi conti. Il Movimento non può salvarsi da solo, ma al momento neppure il Pd può prosperare senza i Cinque stelle.

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