Di qua una quarantenne afrodiscendente femminista, di là un ottuagenario bianco che pensa che le donne debbano stare a casa. Forse l’immagine più potente del cambio in Colombia la dà proprio il contrasto tra Francia Márquez, la nuova vicepresidente di Gustavo Petro e l’avversario di questo al ballottaggio, Rodolfo Hernández, l’ingegnere che è stato capace di sommare al voto anti-establishment quello dell’establishment che lo ha scelto come proprio campione per fermare il cambiamento integratore proposto dalla sinistra. I 700mila voti di differenza, 11,3 milioni per Petro contro 10,6, in un’aumentata partecipazione elettorale, attestano che l’aspettativa di cambiamento ha nettamente sconfitto la paura.

La trasformazione

Gustavo Petro incarna allora la potenza simbolica del passaggio di secolo nella trasformazione profonda dall’esperienza politica e di vita di un sessantenne che nella sua adolescenza si integra alla guerriglia dell’M19, scegliendo il nome di battaglia di Aureliano Buendía (dal personaggio di García Márquez).

Poi smobilita, firma la pace e passa un trentennio nella vita politica democratica – qualificante l’esperienza come sindaco di Bogotà, criticato dai ricchi, amato dalle periferie – sostanzialmente inventando la sinistra come forza civile e per un paese in pace, in un paese, la Colombia, che in pace non è stato mai.

Il potere perduto

Adesso Petro potrà/dovrà governare l’ultimo tratto di un percorso di pacificazione per far passare lo slogan di campagna elettorale di una “Colombia potenza mondiale della vita” dalle parole ai fatti. Dovrà firmare l’accordo con l’ultima guerriglia esistente, l’Eln, ma soprattutto attuare gli accordi di pace del 2016, disarmando chi non ha mai smesso di uccidere gli ex-guerriglieri, i leader sociali, indigeni, contadini, ambientalisti che hanno continuato a morire a centinaia sotto i colpi del paramilitarismo al servizio delle élite incarnate dall’ex-presidente Álvaro Uribe del quale l’inquilino uscente da Palazzo di Nariños, Iván Duque, è delfino.

Il disprezzo che questo ha avuto per le colombiane e i colombiani vittime del Covid ha contribuito non poco a creare i presupposti perché l’aristocrazia colombiana perdesse un potere che aveva molti tratti dell’Antico regime.

Pacto Histórico

(AP)

E poi c’è tanto altro nel programma che ha portato Petro alla presidenza, coniugando la radicalità del cambiamento necessario con l’istituzionalità di un aplomb che in campagna elettorale è sempre rimasto quello dello statista. Adesso il governo Petro dovrà saper dare sostanza a entrambi gli aspetti, a partire dal rapporto con i movimenti giovanili dello “sciopero nazionale” da aprile a luglio 2021, massacrati a decine dalla repressione (senza che nessuno in Europa si indignasse), così simili allo “smottamento sociale” che ha portato Gabriel Boric alla Moneda in Cile. Entrambi vedono nella “transizione climatica”, tanto più difficile in un grande paese petrolifero come la Colombia, un punto fondamentale.

Le aspettative della base del “Pacto Histórico” che ha sintetizzato in Petro tutta la molteplicità della Colombia, un paese dinamico, ricco, plurale, ma anche profondamente diseguale e ingiusto sono enormi. La riforma tributaria, che Petro annuncia per le primissime settimane di governo è la cosa più “siglo XX” della sinistra colombiana: l’iniquità storica si combatte con la capacità impositiva dello stato che – nelle aspettative del nuovo governo e senza fare troppa paura a un’opinione pubblica maturata in questi anni – quintuplicherà le entrate del fisco rispetto a oggi, dall’1 al 5 per cento del Pil, eliminando esenzioni, con la patrimoniale e con la riforma del catasto sia urbano che agrario.

Il fisco garantirà aspetti classici del programma, l’educazione in primo luogo, e una riforma pensionistica che fornirà una base vitale a tutte le colombiane e i colombiani, lasciando all’iniziativa privata ciò che eccede il minimo.

I rapporti con il Venezuela

L’avvento della sinistra a Bogotà, infine, trasforma il quadro della politica latinoamericana in maniera che neanche i maggiori sognatori di inizio XX secolo, Néstor Kirchner su tutti, avevano potuto sperare, rimettendo al primo posto dell’agenda un’integrazione latinoamericana che costruisca un rapporto paritario con gli Usa.

In quegli anni, gli anni di Néstor, Lula, Chávez e del “No al Alca”, l’area di libero commercio delle Americhe di George Bush, Álvaro Uribe – per il quale è suonata da tempo la campana della giustizia – fu il nemico giurato del Venezuela bolivariano e l’unico alleato sul quale Washington poteva contare a occhi chiusi. Oggi Gustavo Petro ha annunciato che ristabilirà piene relazioni con Caracas.

Della lunga crisi venezuelana Bogotà smette di essere parte del problema per divenire – auspicabilmente – parte della soluzione. Da ottobre in avanti, quando secondo i sondaggi Lula da Silva tornerà a Brasilia, chiudendo una parentesi di sei anni dal golpe di palazzo contro Dilma Rousseff e il processo farsa contro di lui che lo incarcerò ingiustamente consegnando il paese a Bolsonaro, i sette maggiori paesi della regione, Brasile, Messico, Argentina, Cile, Colombia, Perù e Venezuela, saranno tutti governati da governi più o meno progressisti, più o meno radicali, più o meno solidi.

Tutti però condividono nell’integrazione della regione latinoamericana la risposta a problemi storici di sviluppo, di difesa dell’ambiente e di ingiustizia sociale. La pattuglia dei neoliberali, un tempo dilagante, è troppo ridotta per dettar linea, il banchiere ecuadoriano Lasso, il giovane Lacalle in Uruguay, poco più. La scorsa settimana, nel Vertice delle Americhe a Los Angeles la solitudine di Joe Biden, boicottato dal presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador e bacchettato sonoramente dall’argentino Alberto Fernández, ha mostrato che gli Stati Uniti debbano guardare all’America Latina come un partner e non come un esecutore. Se perfino la fedelissima Colombia volta pagina è tempo per tutti, anche per Washington e per Bruxelles, di guardare all’America Latina con nuovi occhi.

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