Come è possibile per un paese travolto dal conflitto riuscire a conservare il proprio spirito civile?
La risposta non è mai scontata quando lutto e costernazione dilagano e straziano gli animi. Per Israele, si tratta di una questione cruciale, proprio ora che il mondo ne invoca il carattere più singolare: unica nazione, tra quelle del Medio Oriente, democratica e in guerra sin dalla nascita.
È necessario guardare ai mesi antecedenti l’orribile attacco del 7 ottobre per capire lo sforzo che questa prova richiede.
Ovunque nel mondo, le nazioni commettono errori, ma è la capacità di riconoscerli e correggerli a tracciare la distinzione tra regimi democratici e non.
In Israele, controversie ruvide e dure su giustizia, libertà e convivenza con “l’altro”, all’interno e oltre i propri confini, hanno mosso la ricerca di nuovi equilibri tra le diverse anime e visioni del paese. Un processo di comprensione e critica che, per la sua natura ribelle e lacerante, ha incarnato la forma più manifesta di confronto democratico nella storia dello stato.

Un’antitesi crudele

Quando il bieco fanatismo dello storico nemico ha scelto di sprigionarsi nella forma di un massacro pianificato, tutta questa sfibrante ricerca è finita al macero, soffocata dalla necessità di sopravvivere, dalla paura, dalla rabbia e volontà di giustizia. L’esercizio di una cultura democratica matura richiede e pretende spazio per i dubbi e piazze per esternarli: condizioni difficili da trovare rinchiusi in un angusto rifugio.
In guerra, ogni possibile interrogativo viene schiacciato da due sole alternative: giusto o sbagliato, legittimo o turpe.
Una sorte spietata, che tutto investe e nulla risparmia dinanzi al riduzionismo dell’antitesi più crudele: “o con noi o contro di noi”.

E non viene difficile credere che la ferocia inaudita di sabato scorso mirasse a questo esito preciso: di fronte a tale desolante appiattimento, verranno perduti i richiami alla convivenza che, ancor tenui, si iniziavano ad udire nel clamore delle diverse istanze e che, col tempo, sarebbero potute emergere con tono distinto.
Un progetto lungo e laborioso, ma destinato a crescere ed evolversi, proprio in virtù di un dibattito così riccamente articolato in una vasta gamma di sfumature: da quelle semplici e liete, convinte di poter vivere abbracciati l’un l’altro, a quelle rigide e severe, che vogliono una coesistenza all’insegna del dominio di una parte a scapito di chi resta; non ultime, quelle che sentenziano il rifiuto radicale della convivenza nella ferma intenzione di destinare “l’altro” all’oblio.

Una visione diversa

Oggi anche queste sfumature sono state cancellate, ma forse da ciò può affiorare una visione diversa.
Proprio nel momento in cui ogni progetto di dialogo e di pace pare sepolto per sempre, emerge con la forza dell’evidenza una considerazione capace di rovesciare la prospettiva: ancor prima di evocare l’affermazione di una chiara intenzione, la parola “convivenza” indica una precisa condizione di necessità.
Esistono mondi in cui si è “obbligati a convivere”: un vincolo dettato da una certezza insuperabile, incontrovertibile e soprattutto indipendente da qualunque volontà.
La storia è piena di elaborati progetti di sterminio: tutti falliti. Perché anche quando l’obliterazione di un popolo si compiesse per mano del suo prossimo, continuerebbero a convivere forzatamente le memorie di entrambi. “L’altro” esisterà sempre, quantomeno nel risentimento che ha originato.

Il tempo delle domande

Nessuno può oggi dire se la pace sarà mai realizzabile e se sarà quella della diplomazia o quella dei cimiteri, ma l’essenza stessa della guerra ci presenta quell’unica disarmante consapevolezza: siamo tutti condannati a convivere.
Una sentenza che racchiude in sé una flebile speranza: chissà che, una volta acquisita questa cognizione, la convivenza non possa tornare ad essere progetto.
Quando, un giorno, le armi taceranno e tornerà il tempo delle domande, dovremo allora saperci chiedere come si fa a convivere anche quando domina l’odio.

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