«Non ho dubbi che fra mille anni gli ebrei esisteranno ancora come tali. Non ho dubbi che fra mille anni lo stato di Israele attuale non esisterà più». Così Vittorio Dan Segre nel 2006 apriva il suo saggio Le Metamorfosi di Israele. Di fronte ai recenti accadimenti per le strade di Tel Aviv e nei palazzi del potere di Gerusalemme, è lecito chiedersi se quella che sembrava allora una lontana profezia non sia già oggi realtà. La riflessione di Segre traeva ispirazione non tanto dall’ennesima tensione internazionale in cui il paese si trovava coinvolto, quanto più dalla sua crisi identitaria, stratificata nelle pieghe di una società sempre più multiforme.

A distanza di quasi vent’anni, appare evidente come certe contraddizioni già emerse allora, non solo non siano state superate, ma nemmeno debitamente affrontate. Ed è forse questa una chiave utile per comprendere le ragioni delle proteste contro la riforma della giustizia avanzata dal nuovo governo. Il “sentimento di catastrofe” che ha spinto i manifestati a una contestazione senza precedenti nella storia di Israele è sì figlio del timore di una rivoluzione istituzionale sentita come un pericolo per le fondamenta liberali dello stato, ma ha origini che vanno ben oltre l’effettiva minaccia alla democrazia.

Tensioni di lungo corso

Per capirle è necessario riflettere sul forte carattere patriottico che ha connotato la società israeliana sin dalla sua nascita: la visione pionieristica del sionismo, unita alle sfide alla sicurezza costanti, ha permesso che si sviluppasse una fiducia diffusa nei riguardi delle istituzioni dello stato. Un sentimento che ha unito storie diverse e contribuito efficacemente allo sviluppo del paese, tanto da far ritenere dispensabile il bisogno di una Costituzione al fine di cristallizzarlo. Tuttavia, questo stesso patriottismo ha finito per derubricare quelle contraddizioni inevitabili nello sviluppo di ogni nazione, ritenendole meno urgenti rispetto alla necessità del sostegno alla causa comune.

La prima tra queste è addirittura antecedente a Israele: l’idea di “stato del popolo ebraico” finì per scatenare fin da subito uno scontro su quanto quell’ebraico implicasse la sfera dell’ortodossia religiosa. Una tensione mai esaurita, e che oggi si accompagna ai contrasti sulla natura della democrazia conosciuti anche in occidente. Conflitti che vengono avvertiti dalla parte di cittadinanza secolare e liberale come pericolosi di fronte all’assertività di certi orientamenti sempre più rappresentati nel governo e nella demografia del paese. La riforma della giustizia è così percepita come il tentativo di far avanzare nelle agende di governo un impianto teocratico e illiberale, assecondando logiche tribali a discapito della coesione nazionale.

Risposte nuove

Tensioni così radicate non si possono affrontare con un negoziato tecnico sulla riforma, ma solo trasformando quest’impasse nell’opportunità storica di un dialogo vero che affronti le contraddizioni riaperte da questo vaso di Pandora. Un momento che obblighi le mille anime e le mille tribù di Israele a guardarsi in faccia, in un vero percorso costituente, provando ad immaginare risposte nuove alle domande che si trascinano da 75 anni.

Non è detto che questo processo si risolva davvero in una Costituzione, ma almeno sarà quel primo passo, ormai inderogabile, in direzione di un progetto di convivenza, un immaginario collettivo rinnovato in cui si possano ritrovare tutti, anche quei gruppi che oggi sono esclusi dal dibattito. Senza questo processo, le fratture continueranno ad aprirsi e non è detto che la prossima non possa allargarsi fino al conflitto aperto.

Alla fine, qualunque sia la scelta, la profezia di Vittorio Dan Segre è destinata a realizzarsi. Israele non può più esistere nella sua forma attuale: che piaccia o no è destinata a rinnovarsi come tutte le società. Ma se tutto inevitabilmente cambia, sono questi i momenti in cui si deve decidere se accettare la “catastrofe” o se essere saggi in altro modo.

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