- Si è chiusa il 9 maggio in pompa magna a Strasburgo la Conferenza sul futuro dell’Europa, inaugurata un anno fa per rafforzare la legittimità democratica dell’Unione europea, coinvolgendo direttamente i cittadini in una grande riflessione continentale sul suo, cioè sul loro, futuro.
- È stato il frutto della concezione fondamentalmente tecnopopulista di democrazia che sta alla radice dell’Unione europea. Essa si concreta in un’idea di “democrazia deliberativa” che aggira e minimizza i meccanismi tradizionali della rappresentanza politica, in particolare il ruolo centrale dei partiti e dei parlamenti.
- Al cuore della Conferenza si è infatti scelto di porre quattro comitati (panels) composti ciascuno da 200 cittadini sorteggiati e invitati a formulare proposte di riforma dell’Unione europea in un ambiente deliberativo altamente artificiale e controllato.
Si è chiusa il 9 maggio in pompa magna a Strasburgo la Conferenza sul futuro dell’Europa, inaugurata un anno fa per rafforzare la legittimità democratica dell’Unione europea, coinvolgendo direttamente i cittadini in una grande riflessione continentale sul suo, cioè sul loro, futuro.
Pur avendo la plenaria della Conferenza adottato 49 dettagliatissime proposte (alcune delle quali forse più adatte a un consiglio comunale che a un’unione continentale, come la richiesta di offrire corsi di primo soccorso a tutti i cittadini, o quella di collocare defibrillatori in tutti gli edifici pubblici degli stati membri), i suoi lavori si sono svolti in un’indifferenza pressoché generale. A ben guardare, questo disinteresse non appare casuale e ingiustificato.
È invece il frutto della concezione fondamentalmente tecnopopulista di democrazia che sta alla radice di questo esperimento transnazionale. Essa si concreta in un’idea di “democrazia deliberativa” che aggira e minimizza i meccanismi tradizionali della rappresentanza politica, in particolare il ruolo centrale dei partiti e dei parlamenti.
Al cuore della Conferenza si è infatti scelto di porre quattro comitati (panels) composti ciascuno da 200 cittadini sorteggiati e invitati a formulare proposte di riforma dell’Unione europea in un ambiente deliberativo altamente artificiale e controllato. Da ciò emerge un curioso connubio di tecnocrazia e di populismo.
Tecnocrazia e populismo
L’elemento tecnocratico si evince dalla natura verticistica dell’iniziativa e dal fatto che degli esperti siano stati chiamati a sviluppare le procedure per le deliberazioni, a introdurre i temi in discussione e ad assicurarsi che il contenuto dei dibattiti fosse il più possibile neutrale e apolitico, come scienziati in un laboratorio.
L’elemento populista traspare invece dalla convinzione che il risultato di queste strane deliberazioni rappresenti la volontà popolare in maniera più pura e autentica dei meccanismi di rappresentanza politica tradizionali.
Il desiderio di “de-politicizzare” e “neutralizzare” i lavori della Conferenza, per usare una celebre espressione del giurista tedesco Carl Schmitt, è risultato troppo evidente per passare inosservato. Le sue plenarie si sono tenute nell’emiciclo del Parlamento europeo a Strasburgo, ma con seggi organizzati per ordine alfabetico e non per affiliazione politica.
I membri dei comitati di cittadini sono stati sorteggiati in modo da rappresentare le differenze sociologiche nell’Unione sulla base di cinque criteri concepiti come neutrali e scientifici, ma in realtà dalle profonde implicazioni politiche: la nazionalità, la divisione tra aree urbane e agricole, la provenienza socioeconomica, il sesso e l’età, con i giovani volutamente sovrarappresentati.
Legittimare Macron
Non solo non si è data alcuna rilevanza agli orientamenti politici e alle diversissime attitudini nei confronti dell’Ue presenti nella popolazione, ma si è stabilito che il possesso di cariche elettive e responsabilità politiche anche locali fosse una possibile causa di esclusione dai comitati di cittadini, segno di come gli organizzatori andassero in cerca del “popolo” nella sua purezza incontaminata da affiliazioni politiche.
Separando scientemente la politica dagli interessi e dai valori elaborati nei corpi intermedi delle nostre società, i processi deliberativi costituiscono in realtà esercizi di ventriloquio politico attraverso cui governanti ed esperti convocano un gruppo non organizzato di individui, apparentemente per ascoltarne le preferenze, in pratica per confermare e legittimare i propri piani e preconcetti.
I risultati dalla Conferenza conferiranno infatti una patina di democraticità all’agenda di riforma europea del suo ispiratore Emmanuel Macron, neoeletto presidente francese e tecnopopulista incompreso che nel 2019, in risposta ai moti dei gilet gialli, come un sovrano d’antico regime si è concesso un tour delle municipalità di Francia per permettere ai cittadini di esprimergli le loro lagnanze.
Indebolire la democrazia
I risultati della Conferenza non sono dunque stati all’altezza delle aspettative soprattutto perché il modello di democrazia che l’ha ispirata è spaventosamente povero. Una vera democrazia deve strutturarsi per saper rappresentare costellazioni di valori e interessi in competizione fra loro e portatrici di visioni alternative del bene comune.
Lungi dal rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni europee, questa Conferenza l’ha probabilmente indebolita, legittimando l’idea che i partiti politici e i parlamenti siano un ostacolo alla rappresentanza.
Purtroppo, l’approccio tecnopopulista dell’Unione al problema della sua legittimità democratica ha origini ben più remote della Conferenza. L’approfondimento dell’integrazione europea sin dagli anni Novanta, acceleratosi in reazione alle gravi crisi dell’ultimo decennio, non ha portato a un vero superamento delle sue tradizionali tendenze tecnocratiche, ma alla loro combinazione con nuove tendenze populistiche tese ad “ascoltare” i cittadini e, più di recente, a convocarli per deliberare.
Si pensi solo a iniziative quali i “Dialoghi coi cittadini” della Commissione, o anche a dinamiche politiche anticompetitive come le grandi coalizioni permanenti che da decenni reggono il Parlamento europeo, impedendo scientemente quella polarizzazione del dibattito tra proposte alternative che è il sale di ogni democrazia e che meglio rappresenterebbe la diversità di posizioni sul futuro dell’Unione esistente nelle nostre società.
Cambiare i partiti
Qual è, dunque, l’alternativa? Una volta smascherata la finzione impossibile della democrazia deliberativa, diventa chiaro che l’Ue va democratizzata rafforzando, non indebolendo, i partiti politici europei.
L’Ue non ha bisogno di modi più “diretti” per collegare una massa di cittadini disorganizzati e de-politicizzati a istituzioni dall’impianto tecnocratico, ma di una democratizzazione dei partiti politici sovranazionali che li renda capaci d’intermediare meglio valori e interessi al loro interno e li ancori più stabilmente nelle società europee, anche a livello nazionale e locale.
Nonostante l’innegabile crisi dei partiti e della rappresentanza politica nel nostro tempo, non sarà ricorrendo a una sorta di raffazzonato grillismo (o macronismo, fenomeno ad esso più affine di quanto non si pensi comunemente) europeo che potremo conferire piena legittimità democratica all’Unione.
Dovremo invece sforzarci di rinnovare i partiti politici europei e gli altri corpi intermedi nei quali gruppi di cittadini si strutturino e, attraverso lo scambio e la partecipazione dal basso, organizzino la competizione tra valori e interessi alternativi per definire il bene comune europeo.
Solo così l’Unione potrà spezzare il sortilegio tecnopopulista che continua a separarla dai suoi cittadini e riscoprire la via democratica all’integrazione continentale propugnata a suo tempo da grandi italiani quali Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli.
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