A sentire l’ennesima dichiarazione di Donald Trump che intende sigillare i confini statunitensi il giorno dopo la sua eventuale rielezione alla Casa Bianca, è lecito domandarsi quanto essa sia destinata a diventare progetto concreto o a rimanere l’ennesima boutade populista dell’ex Presidente. Non che si tratti di un’idea originale, ma è impossibile non cogliere l’ironia della storia di fronte all’ampio seguito che accompagna la proposta, in una nazione che ha fatto dell’accoglienza il suo spirito fondante.

Ma forse le parole del tycoon vanno lette come l’ennesimo tentativo di parlare a un elettorato senza più punti di riferimento di fronte alla liquidità di un mondo esposto all’internazionalizzazione smodata dell’economia, a progressi scientifici e tecnologici sempre meno comprensibili e alla progressiva dissoluzione del potere della politica. Un mondo in cui lo stesso principio di autodeterminazione, così caro alle nostre democrazie, appare improvvisamente vacuo.

Fino ad ora, le reazioni a tutto ciò sono state in sostanza due, di opposta natura. La prima è stata quella di cavalcare con entusiasmo l’onda del cosmopolitismo, nell'inscalfibile certezza che il movimento naturale della fluidità globale avrebbe condotto alla piena soddisfazione dei bisogni e dei desideri. E se questa convinzione si è rivelata in parte vera, ha tuttavia portato con sé effetti collaterali inattesi dai più, ma già paventati da Simone Weil quasi un secolo fa: la “malattia dello sradicamento” che induce alla dissoluzione delle fondamenta identitarie, per cui lingue, culture ed esperienze perdono il loro valore.

La seconda reazione, quella invocata dagli svariati Trump locali, è stata invece quella del rigurgito nazionalista: difendere ad oltranza costumi e confini, dal piatto tipico, alla manodopera nostrana. Strada che, malgrado muri sempre più alti, dazi sempre più cari e minacce sempre più altisonanti, sembra difficile da percorrere in una realtà contemporanea dove nessuno può permettersi di chiudersi nel proprio piccolo universo.

Oggi che lo scontro frontale tra mondialismo e nazionalismo non riesce a mitigarsi, appare evidente come trovare una terza via sia diventata una questione urgente. E chissà che non possa proprio nascere dalla stessa idea di “nazione”. Se oggi il termine viene guardato con diffidenza da molti, il suo senso profondo rimanda a valori tutt’altro che negativi, legati a una sana concezione di appartenenza comunitaria e di autentiche relazioni umane. Il problema sorge quando questo significato originario viene distorto nella sua forma parossistica, al limite del caricaturale, di “nazionalismo”: una distorsione di quegli stessi valori in chiave elitista ed escludente, basata su una volontà di dominio che fa del rifiuto o della soppressione dell’altro la marca di un egoismo tribale al grido di “prima noi”.

Nazionalismo e mondialismo si legittimano a vicenda e continueranno a farlo fintanto che non si guarderà all’idea di nazione attraverso una lente differente: una comunità determinata a portare avanti un progetto di società attraverso uno spirito non di competizione, bensì di cooperazione con il mondo che la circonda. Il mondialismo ci liquefa in atomi senza identità. Il nazionalismo ci cristallizza in entità che cercano un primato. Il punto di equilibrio allora non potrà che determinarsi a partire dal nostro legittimo senso di appartenenza, ma rivolto con convinzione verso un percorso di aggregazione che tende a qualcosa di più ampio. Un vero processo “inter-nazionale” tra identità diverse, basato su una concezione nuova di “patriottismo a cerchi concentrici”, in cui, affianco ad un solido legame con la nostra città o il nostro paese, crescano un radicamento e un impegno più larghi.

Così facendo, se non finiremo per auto-annientarci prima, un giorno potremmo arrivare a includere persino il cerchio più ampio possibile: considerandoci tutti diversi, eppure tutti responsabili per lo stesso sofferente pianeta.

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