«Ma insomma, è un successo o un fallimento?»: questa la domanda che dal giorno delle conclusioni della Cop26 di Glasgow mi hanno rivolto in molti, dall’Italia. So che non è molto popolare sottrarsi ai commenti da “Domenica Sportiva”, ma viviamo un cambiamento molto complesso e non lineare, nel quale dobbiamo soprattutto assicurarci che la decarbonizzazione, anzi l’azzeramento di tutti i gas serra, vada avanti e che acceleri in linea con l’obiettivo di limitare al massimo possibile il riscaldamento globale. Perché quel che veramente importa non sono le diverse personalizzazioni o usi a fini propagandistici della conferenza, quel che importa è l’efficacia della nostra azione.

Molti hanno sottolineato che il risultato della Cop26 era semplicemente inimmaginabile solo due o tre anni fa. Ricordiamo che allora c’era Trump che prometteva di riaprire le centrali a carbone, oggi il compromesso che ci lascia davvero l’amaro in bocca parla comunque di riduzione del carbone.

Certo, per riuscire a limitare il riscaldamento globale a 1,5°C dovremmo presto non solo rinunciare del tutto al carbone, ma a tutti combustibili fossili.

Insomma, il bicchiere non è né mezzo pieno né mezzo vuoto. È tutte e due le cose insieme. Non possiamo accontentarci di un obiettivo di taglio delle emissioni del 45 per cento al 2030  e del percorso per adeguare gli obiettivi dei singoli Paesi, se non ci sono ancora impegni concreti e la promessa scolpita nella pietra e dichiarata in modo forte e politicamente inequivocabile.

D’altro canto, dobbiamo difendere la possibilità che il percorso venga seguito e gli obiettivi perseguiti, senza aiutare involontariamente chi vorrebbe liberarsi di una sede multilaterale che, con tutti i suoi grandi difetti – d’altro canto, è il sistema multilaterale che avrebbe bisogno di essere rafforzato e reso incisivo- ha comunque portato a dei cambiamenti profondi, ancorché inadeguati.

Se pensiamo alle diverse conferenze Onu, quella sul clima è stata forse quella che ha più inciso sulla realtà economica: questo è notevole, in tempi in cui si stanno sottraendo sempre più competenze agli stessi governi nazionali in nome di interessi particolari. Per questo, forse, qualcuno vorrebbe ridurne l’importanza, salita ormai alle stelle.

Gli ambientalisti

Le organizzazioni, ambientaliste e no, che lavorano per fermare il cambiamento climatico hanno da tempo capito che le Cop sono molto importanti, ma che non bastano. Il lavoro si fa nei singoli stati, le riduzioni si fanno nei singoli stati. Poi però c’è l’azione collettiva, quella che può assicurare un risultato incisivo.

Responsabilità di ciascuno, responsabilità tutti insieme (ancorché differenziate, come richiama il principio dell’equità). Forse è la cosa più difficile da far capire ai politici. Così come è difficile far capire che la sede multilaterale dovrebbe servire a rafforzare l’azione di ciascuno, a coprire l’un l’altro le spalle nel perseguire il comune interesse a garantire un futuro alle persone e alla civilizzazione umana, e invece avviene esattamente il contrario.

E allora, pensiamo ad alcuni nodi su cui lavorare da oggi stesso. Tutto si gioca sul principio dell’autorevolezza.

I paesi di più antica industrializzazione dovrebbero accelerare la transizione, senza se e senza ma: pensare di indurre altri paesi, più o meno economicamente forti, a farlo senza praticare quel che si dice è sbagliato, ma soprattutto non dà risultati, né interni né esterni. E dovrebbero anche tener conto del fatto che a loro tocca il primo passo, lo stesso primo passo che avrebbero dovuto fare con il protocollo di Kyoto (e che gli Usa si rifiutarono di fare). Biden lo sa, Kerry lo sa, ma va messo in pratica.

Le economie in rapida espansione dovrebbero comprendere che hanno più da guadagnare nell’assumere la testa della transizione che dal ricoprire ruoli di retroguardia. Non è solo una questione di rapporto corretto con le persone più vulnerabili che forse nell’immediato potranno beneficiare dall’energia prodotta col carbone –in realtà è più probabile siano i ceti già privilegiati a beneficiarne- ma che poi saranno anche tra coloro che maggiormente ne subiranno le conseguenze climatiche.

Pensiamo che si calcola che le ondate di calore abbiano ucciso almeno 17 mila persone in India negli ultimi 50 anni e che negli ultimi anni si è spesso superata la temperatura di 50°C, incompatibile con la capacità del corpo umano di autoregolarsi. È anche per loro una questione di autorevolezza strategica e non di mere alleanze tattiche.

La società civile

Le organizzazioni della società civile, inclusi i giovani, dovrebbero pensare a come diventare un vero movimento globale, radicato allo stesso modo in tutti i Paesi. Del resto, la questione climatica, la perdita di biodiversità e le questioni  ambientali in generale non si possono più distinguere e disgiungere da quella dell’equità, con il grande nodo di come costruire per tutti un modello economico e sociale qualitativo e non solo quantitativo.

Tutti dobbiamo tradurre gli impegni di Glasgow in impegni nazionali, locali e persino di singola azienda o comunità. In altre parole, dobbiamo fare in modo che i nostri impegni vengano mantenuti e aumentati, per l’Europa e l’Italia il meno 55 per cento entro il 2030 deve diventare un punto di partenza e non di arrivo. E bisogna farlo in tutti i settori.

Questi sono solo quattro punti di partenza, ma nei prossimi giorni e nelle prossime settimane la nostra agenda si dovrà allungare e riempire di impegni. Perché se vogliamo che l’azione per il clima sia seria e incisiva, ognuno di noi dovrà chiedersi cosa può fare lei o lui per aiutare il clima, e non cosa possono fare gli altri.

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