Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, speciale infrasettimanale post Cop26 per provare a fare una cosa difficilissima: un bilancio.

Il vertice si è chiuso sabato sera, è stata una corsa forsennata e insieme lentissima. Tutti noi che eravamo lì abbiamo usato la metafora della riunione di condominio globale, perché risuona tanto a noi italiani e va bene così.

Un altro modo per vederla è che Cop26 è un processo di pace, sia all’interno della comunità delle nazioni che tra questa comunità di nazioni e la Terra.

Come è andata, dunque? La parola giusta per definire un evento del genere è esasperante. È esasperante il rapporto tra la macchina diplomatica – lenta, lentissima – e la rapidità della crisi climatica. La sovranità è locale, l’atmosfera è globale, è per questo che è tutto così difficile.

Fine dell’introduzione, procediamo con un bilancio per punti. Perché non tutto è da buttare e, come sempre nella vita, è anche una questione di aspettative. 

Le cinque cose che Cop26 ci ha dato

  1. L’elefante nella stanza

Può sembrare strano, ma le conferenze delle parti sul clima non erano mai riuscite a menzionare la causa principale (non unica) della crisi climatica: le fonti fossili di energia che mandano avanti le nostre economie avanzate e ricche dai tempi della rivoluzione industriale.

L’accordo di Parigi, frutto della Cop21, per esempio ci dava un obiettivo (contenere l’aumento di temperature tra 2°C e 1,5°C), ci dava un orizzonte per poter dire di averlo raggiunto (l’abbattimento delle emissioni di gas serra), ma non diceva come si abbattono le emissioni per fermare il riscaldamento globale, cioè non parlava in modo diretto di bruciare carbone, petrolio e gas.

Cop26 ha visualizzato l’elefante nella stanza. Il colpo di mano finale dell’India sul carbone ha attenuato la soddisfazione, ma non facciamoci fuorviare del tutto: il risultato è comunque storico. L’impegno a fare un phase down del carbone (non un phase out, purtroppo) e la prospettiva di un’eliminazione globale dei sussidi alle fonti fossili sono una vittoria. Non piena come avremmo sperato, ma una vittoria.

  1. Tabelle migliori per sapere quanto siamo vicini al precipizio

La Cop26 ha finalizzato una cosa chiamata Enhanced Transparency Framework, quindi un sistema di regole comuni e verificabili di trasparenza nel contare e riportare le emissioni di gas serra. Può sembrare un risultato esclusivamente tecnico, invece è una faccenda alla quale dobbiamo guardare dal punto di vista politico e come una vittoria esistenziale.

Dall’accordo di Parigi non erano mai stati stabiliti degli standard sui report delle emissioni, ognuno faceva a modo proprio e veniva così lasciato un margine pericoloso per le manomissioni, soprattutto tra le somme (le emissioni) e le sottrazioni (gli assorbimenti).

Ora ogni paese dovrà pubblicare ogni due anni il proprio inventario di gas serra, con tabelle comuni, divise per gas e settori, monitorando anche gli impegni presi rispetto alle emissioni effettive, tutto sotto controllo e revisione di Unfccc (United Nations framework convention on climate change). Questo ci permette di sapere con molta più precisione a che punto siamo nel processo di decarbonizzazione (e quanto siamo vicini o lontani dal precipizio).

  1. Una giungla di carbonio (in parte) addomesticata

I mercati di carbonio servono a scambiare i permessi per inquinare tra i paesi. Se ne occupa il famoso articolo 6 del libro delle regole dell’accordo di Parigi, il Godot dell’azione per il clima, perché non era mai stato finalizzato. Chi ha più emissioni compra questi crediti da chi ne ha meno, e si possono anche scambiare sul libero mercato.

Finora era una giungla piena di manipolazioni, ora non diventa un mercato perfetto e virtuoso, ma almeno Cop26 ha visto la nascita di un sistema di regole per gli scambi bilaterali e per quelli nella cornice Onu, aprendo a un mercato da 100 miliardi di dollari che può fornire anche risorse per le transizioni ecologiche ed energetiche.

C’è rischio di greenwashing? Tantissimo. Ma prima, in assenza di regole, era molto di più.

Ci sono ancora dubbi su quanto possa funzionare il nuovo sistema, soprattutto perché non impedisce che sul mercato arrivino crediti zombie di vecchi accordi (come il protocollo di Kyoto), che non rappresentano ormai più nessun risparmio di emissioni ma che rischiano di essere venduti come se lo fossero. Questo è proprio un caso di bicchiere mezzo pieno/mezzo vuoto, ma prima il bicchiere non c’era proprio, quindi meglio. 

  1. Prove di distensione climatica

L’accordo Usa-Cina della seconda settimana di Cop26 è l’inizio di qualcosa di grande e importante che potremmo chiamare distensione climatica, una cosa paragonabile (paragone che Kerry ha fatto) alla non proliferazione di armi nucleari.

Per tutta la prima parte del vertice, l’obiettivo della Cina era sembrato contemporaneamente di sabotare Cop26 con la sua assenza e di lavorare dietro le quinte per perseguire i suoi obiettivi, climatici (sulla trasparenza, soprattutto, ma abbiamo visto che non ce l’hanno fatta) e geopolitici (spaccare il fronte tra Regno Unito, Europa e Usa da una parte, resto del mondo dall’altra).

Poi è arrivato, a sorpresa, il dialogo tra i due inviati per il clima, con un testo congiunto che è una prova di intesa bilaterale e che è l’incipit di qualcosa di promettente: Cina e Stati Uniti – insieme ben più di un terzo del problema clima – iniziano a lavorare insieme. I contenuti sono ancora fumosi (c’è qualcosa sul metano, qualcosina sulla deforestazione), ma in questo caso è il segnale che conta.

  1. Il frutto più facile da cogliere

A proposito di metano, Cop26 ha contribuito a metterlo al centro dell’azione per il clima, ed è un’ottima, ottima idea. Il metano è un gas ottanta volte più potente della Co2, ma dura soltanto vent’anni nell’atmosfera. La combinazione di questi due fattori significa che abbattere le emissioni di metano permette di raggiungere risultati importanti in poco tempo.

È «il frutto più basso, il primo da cogliere», come lo aveva definito Ursula von der Leyen. E allora cogliamolo: il Global Methane Pledge è stato siglato a margine del processo negoziale, è l’impegno di oltre cento paesi (poi c’è da contare la Cina, per la dichiarazione bilaterale di cui sopra) a ridurre le emissioni di metano del 30 per cento entro il 2030: potrebbe valere un rallentamento dei riscaldamento globale di 0,2°C.

06/11/2021 Glasgow, Global Day for Climate Justice march. Migliaia di persone sfilano per le strade della città durante il Cop26 per protestare contro l'inerzia dei leader politici e chiedere a gran voce interventi immediati contro la crisi climatica

Le cinque cose che Cop26 non ci ha dato

  1. Il sogno 1,5°C è vivo ma sta male

Cop26 non ci ha ancora dato la cosa più importante. Forse perché non poteva farlo, perché il processo non permetteva proprio di farlo, come uno spremiagrumi non può pelare una patata. Noi esseri umani per vivere, prosperare ed essere al sicuro abbiamo bisogno che la temperatura salga di non più di 1,5°C entro fine secolo. Sembra pedante ripeterlo, ma è così. Dopo Glasgow, siamo ancora lontani.

L’obiettivo dichiarato del vertice – ripetuto allo sfinimento dalla presidenza di Alok Sharma, da Boris Johnson, da tutti – era tenere questo sogno ancora vivo. È ancora vivo? È ancora vivo. Sta bene? Medio, così così.

Britain's President for COP26 Alok Sharma, left, Britain's Prime Minister Boris Johnson during a press conference in Downing Street, London, Sunday, Nov. 14, 2021 about the Cop26 climate summit. (Daniel Leal/Pool photo via AP)

Climate Action Tracker punta la traiettoria reale a 2,4° C, che va malissimo. Gli impegni nazionali sono ancora deboli, ed è questo il problema vero. Al di là di tutte le intese, i meccanismi, i fondi, quello che conta è quello che fanno le nazioni, e su questo fronte non c’è stato il cambio di passo che servirebbe.

  1. Solidarietà solo di facciata

Cop26 non ha prodotto alcuna vera solidarietà tra le nazioni sul fatto che solo alcune nazioni della Terra (diciamo una ventina) hanno causato la crisi climatica. O meglio, la solidarietà c’è, ma è ancora molto, molto di facciata.

La questione della finanza per il clima è stata sollevata come non mai, soprattutto rispetto alle responsabilità storiche della crisi climatica, ma è stato tema di dibattito molto più che di azione. È come se centinaia di paesi vulnerabili (a vario titolo, per varie ragioni, il Kenya non è vulnerabile come le Isole Marshall che non sono vulnerabili come il Perù) avessero presentato il conto finanziario. Europa e Stati Uniti però si sono voltati dall’altra parte, ancora una volta non hanno voluto prendere impegni netti e verificabili sui soldi per mitigazione, adattamento e loss and damage.

  1. Chi paga per quello che abbiamo rotto

Ecco, il loss and damage, i danni e le perdite. Sul clima c’è uno spettro di cose da fare. La prima è la mitigazione, ridurre le emissioni per evitare che il clima si rompa più di come non è già rotto. La seconda è l’adattamento, prepararci a tutte le volte che il clima romperà noi. La terza sono i danni e le perdite, cioè pagare per tutto quello che il clima ha già rotto delle nostre vite.

Prima di Cop26 sembrava un orizzonte ancora molto astratto, ora le riparazioni climatiche sono al centro della conversazione, ed è già un risultato, che potenzialmente cambia la geografia del mondo e i rapporti tra nazioni. È troppo poco, però, per chi sta già annegando. I paesi vulnerabili chiedevano qualcosa di molto più operativo, un meccanismo declinato al tempo presente e non a quello futuro, e non lo hanno ottenuto.

  1. Cecità sulla giustizia climatica

Cop26 è stata la conferenza sul clima più politica di sempre ed è finalmente emerso il vero tema centrale della questione: le disuguaglianze. Si scrive clima, si legge ingiustizia.

L’ingiustizia di chi ha consumato quasi tutto il budget di carbonio a disposizione dell’umanità (Nord America, Europa, Giappone, Corea del Sud), cioè circa l’86 per cento, e tutti gli altri. L’ingiustizia patita da chi questa crisi non l’ha causata e deve subirla, confrontandosi con un’altra emergenza in contemporanea, cioè la pandemia, e deve farlo soffocato dal nodo del debito.

Eppure, tutti questi temi non hanno avuto nessun vero versante operativo: qui davvero è stato solo bla bla bla. Per i paesi sviluppati la Cop26 è sembrato lo strumento per proteggere l’esclusività del proprio stile di vita. Ed è questo il tema che a partire dalle prossime conferenze andrà affrontato prima di tutti: la giustizia climatica.

  1. E l’agricoltura? E l’acqua?

La difficoltà nel trovare una strategia per ridurre le emissioni di Co2 dal gigantesco settore energia purtroppo ha fatto finire sotto traccia a Cop26 (come a ogni conferenza su clima) altri temi cruciali per la transizione ecologica, come ad esempio l’assoluta insostenibilità che c’è in come il genere umano produce e consuma cibo.

Anche nel grande accordo sulla deforestazione (davvero importante, vasto, solido) non c’è un riferimento chiaro a come le nostre diete impattano sulle foreste (tantissimo) e a come moderare questo impatto.

Il cibo rappresenta il 25 per cento delle emissioni, più o meno come la Cina. Della Cina però si è parlato tanto, del cibo poco. Tre esseri umani su dieci non hanno accesso a un’acqua sicura, è un enorme problema di adattamento climatico, ma a Cop26 era ai margini (come tutto il discorso sull’adattamento).

Xinhua/Avalon.red / AGF

Letture per proseguire

Questa è la prima sintesi di un evento che solo nelle settimane e nei mesi riusciremo del tutto a metabolizzare. Nessun giornale e nessun osservatore può assorbire e restituire da solo tutto il significato di Cop26, quindi ecco una serie di letture italiane e internazionali per approfondire.

Da tempo seguo la newsletter Il Climatariano, del direttore di Lifegate Tommaso Perrone. Anche la squadra di Lifegate era a Glasgow e hanno fatto un lavoro eccellente, il nuovo numero Climatariano porta punti di vista interessanti su quello che è successo nelle ultime settimane, lo trovate qui.

Antonio Piemontese è un giornalista di Wired che ha uno sguardo attento a tutti gli intrecci tra il clima, l’ambiente, la sostenibilità e l’economia. Siamo stati compagni di viaggio e di avventura alla Cop26, qui trovate le sue utilissime cronache.

Giacomo Grassi lavora all’intersezione tra la politica e la scienza presso il Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea. Era a Glasgow e ha scritto su Facebook una delle letture più articolate e interessati che ho avuto modo di leggere su Cop26. La trovate qui.

Giorgio Vacchiano è un ricercatore forestale, uno degli scienziati italiani più bravi a restituire connessioni e complessità, un amico e un compagno di progetti (Ecotoni, Vaia). Sempre su Facebook, ha scritto un post che secondo me restituisce perfettamente il senso di Cop26 come processo di pace e ricostruzione.


Siamo arrivati alla fine, grazie per tutto il sostegno, il supporto e l’attenzione che mi e ci avete dato durante il racconto di Cop26. Se avete domande specifiche, curiosità, punti di vista o segnalazioni sulla Cop, scrivetemi: ferdinando.cotugno@gmail.com. Invece per comunicare con Domani, la mail è lettori@editorialedomani.it. Da sabato riprende la programmazione regolare. A presto!

Ferdinando Cotugno

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