Yascha Mounk

Il populismo autoritario pone una minaccia seria e durevole alla democrazia liberale, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. La vittoria di Joe Biden non ha definitivamente ripudiato la sua variante trumpiana. Dato il potere consolidato dei populisti, non sarebbe stato possibile. Ma questa non è una ragione valida per essere delusi: queste elezioni ci offrono tre lezioni di ottimismo.

La prima: le istituzioni americane si sono dimostrate resilienti rispetto ad altre. Non dobbiamo essere ingenui pensando che avrebbero potuto resistere agli attacchi di un populista più disciplinato, ma dobbiamo essere orgogliosi del lavoro che molti hanno fatto per difendere lo stato di diritto e il bilanciamento dei poteri.

La seconda: l’America non è stata sedotta dal razzismo di Trump. Le sue provocazioni hanno attratto una parte della base repubblicana, ma lo hanno reso impopolare presso la maggioranza degli americani.

La terza: il sostegno popolare per valori filosoficamente liberali è più ampia di quanto sia spesso sembrata negli ultimi anni. I flussi elettorali e il risultato di alcuni referendum chiave indicano una preferenza ampia, condivisa da diversi gruppi etnici, per un’America che sia davvero inclusiva senza cedere alle fantasie della “wokeness”.

Irshad Manji

Sono una canadese che ha insegnato corsi di leadership negli Stati Uniti per quasi quindici anni. Eppure questo è il primo ciclo elettorale in cui sono stata etichettata come “straniera” e mi è stato detto di smetterla di “interferire”. È successo più di una volta, ogni volta da parte di sostenitori di Trump. L’incertezza che questo presidente ha diffuso mi ha indotto a mettere in questione ciò che credevo fosse l’America: fiduciosa come nessun altro. La maggior parte degli americani che conosco, presi singolarmente, esprime un sentimento di sollievo per il ritorno al paese che conoscono.

Ma la forza che lega la nazione sembra affievolita. Non lo diresti mai se vivi accanto ai più fieri sventola-bandiere del pianeta. Se l’ardente patriottismo maschera una profonda insicurezza, allora questa immigrata vorrebbe offrire un pensiero sul futuro. Per creare “una unione più perfetta” dovremmo smetterla di distribuire perfezione e concentrarci sulla costruzione dell’unione. Darò il mio contributo insegnando ai giovani americani una nuova qualità di leadership che completa il “public speaking”, cioè il “public listening”. Vorrei sapere in che modo voi vorreste aiutare la costruzione di questa unione. State certi che vi ascolterò.

Coleman Hughes

È opinione comune nei circoli dell’élite progressista che la vittoria di Trump nel 2016 sia stata l’esito di un ritorno del razzismo della xenofobia. Questa teoria non ha mai spiegato perché alcune contee che hanno votato per Obama due volte poi sono passate a Trump, e ora ci si trova a dover spiegare anche perché Trump ha aumentato la sua quota elettorale di neri e latinos fra il 2016 e il 2020.

La vera lezione degli ultimi quattro anni è che le élite progressiste si sono allontanate sempre di più dalla sensibilità degli americani della working class di qualunque background culturale. Questa miopia delle élite ha aperto uno spazio per un populista autoritario senza esperienza di governo, senza rispetto per la dignità del ruolo presidenziale e senza riguardo per le norme della democrazia liberale, cose che ha comunicato in un modo che sembrava autentico e che, soprattutto, ha fatto infuriare le élite costiere che la working class americana disprezza.

L’altra lezione è che il sistema americano, costruito tenendo conto di aspiranti dittatori, ha fatto il suo dovere. Ora che il sistema ha neutralizzato questa minaccia è tempo di focalizzarsi su un’altra: l’ideologia illiberale della giustizia sociale. I prossimi quattro anni saranno un test. Il Partito democratico potrà diventare il partito della politica delle identità intersezionali oppure portare il vessillo del liberalismo classico e dei valori dei fondatori. Speriamo, e battiamoci, per quest’ultima possibilità.

Niall Ferguson

Donald Trump non è riuscito a fare una rimonta nello stile del 1948 per quattro ragioni. Primo: la sua campagna contro il voto postale è stata disastrosa. Secondo, la candidata libertaria, Jo Jorgensen, ha raccolto voti preziosi in stati chiave (la sue percentuali al momento sono più ampie del vantaggio di Biden in Arizona, Georgia, Pennsylvania e Wisconsin). Terzo: un numero significativo di elettori, ad esempio in Maine, ha votato tatticamente per i repubblicani al Senato e alla Camera, ma non per Trump. Quarto: solo un numero residuale di funzionari repubblicani e nessun media nazionale serio ha sostenuto il tentativo di Trump di mettere in discussione i risultati.

In generale, tuttavia, non si è trattato di una valanga democratica. Per la prima volta dai tempi di Grover Celeveland nel 1884 un candidato democratico ha vinto la presidenza ma non il Senato, anche se di questo non saremo sicuri fino al ballottaggio in Georgia a gennaio. I democratici hanno anche perso seggi alla Camera, perdendo anche la maggioranza in New Hampshire e il governo del Montana. È stato un risultato notevolmente deludente per i democratici considerando il pessimo tasso di popolarità del presidente e il disastro della gestione della pandemia. Sospetto che i democratici non siano riusciti a trionfare perché molti elettori sono attratti dalle idee politiche più radicali dell’ala sinistra del partito.

Ivan Krastev

Negli ultimi giorni ho avuto l’impressione che molti europei temessero il risultato delle elezioni americane un po’ come si teme un’operazione cardiaca. Ci sono molti fattori che si possono complicare. Molti leader europei hanno anche messo in dubbio che l’Unione europea potesse sopravvivere ad altri quattro anni di Trump. Perciò la notizia della vittoria di Biden è stata accolta un po’come il sorriso del medico. Il paziente ce l’ha fatta. Ma il sollievo generato dai risultati è mitigato da tre osservazioni più realiste.

Primo, Trump se n’è andato, almeno per un po’, ma nessuno può illudersi che il mondo pre-Trump possa ritornare. Secondo, molti di noi si sono resi conto che la politica europea e americana si stanno allontanando, invece di convergere. Credo che gli esperti di democrazie latinoamericane sentano qualcosa di familiare nelle evoluzioni della politica americana più di quelli che studiano i sistemi europei. Terzo, sebbene molti (anche se non tutti) europei sono sinceramente felici di salutare il ritorno dell’America alla normalità, la questione che non possiamo ignorare è: dobbiamo aspettarci che le prossime elezioni siano ancora accolte come un intervento a cuore aperto?

Emily Yoffe

Il presidente eletto Biden (e provo una gioia enorme nel digitare queste parole) deve affrontare i problemi gemelli della pandemia e del collasso economico. Biden ha anche il compito cruciale, ma più piacevole, di ricostruire la struttura federale e nominare per il governo un gruppo di persone decenti e competenti. È probabilmente una cosa buona che Biden non abbia l’agenda ambiziosa di Bernie Sanders o Elizabeth Warren. Sarà abbastanza per il politico navigato Biden tentare di tirarci fuori dal disastro in cui siamo finiti.

Un modo per giudicare il successo dell’Amministrazione Biden sarà se il presidente, e ciò che farà, si metterà nel suo giusto posto, cioè fuori dalla nostra coscienza e preoccupazione quotidiana. Ma Biden e i democratici non possono dimenticare che più di 70 milioni di americani hanno votato per un secondo mandato di Trump. Biden è stato attento, in modo ammirevole, a non etichettare i suoi sostenitori come “deplorables” e razzisti, e a promettere che sarà il presidente di tutti. Ma parte dell’appeal di Trump consisteva nel mostrare, almeno all’apparenza, di essere interessato alle preoccupazioni economiche della working class. Come presidente, Biden dovrà capire e affrontare queste preoccupazioni. Ha l’occasione di dimostrare subito la sua impostazione nel modo in cui pianificherà le gestione del Covid.

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