L’Italia è arrivata al culmine della seconda ondata di Covid-19. Giovedì, è stata registrata la morte di quasi mille persone, il numero più alto dall’inizio della pandemia. Ancora ieri c’erano più di trentamila persone ricoverate. Soltanto nell’ultima settimana, altre migliaia sono passate per le terapie intensive e più di cinquemila non ce l’hanno fatta a uscirne.

A differenza della prima ondata, questa volta non c’è parte del paese che sia stata risparmiata. I centralini dei servizi di emergenza sono stati sommersi dalle chiamate a Milano come a Roma. I piazzali degli ospedali si sono riempiti di ambulanze in attesa a Napoli e in Piemonte. Ancora una volta l’Italia ha scalato le tristi classifiche internazionali dei contagi e dei decessi.

Anche se l’intero paese oggi hai suoi cari da piangere, Bergamo continua a occupare un posto centrale nel racconto della pandemia. La città simbolo della prima ondata, con le sue valli densamente industrializzate, è sempre presente, come uno sfondo, un confronto, un monito.

Ultimamente, compare nelle notizie soprattutto perché la seconda ondata sembra averla risparmiata. «La situazione da noi in questi giorni non è paragonabile a quella di marzo», mi aveva raccontato alla fine di ottobre Fabio Pezzoli, direttore sanitario del Giovanni XXIII, il grande ospedale bergamasco al centro della prima ondata.

Quest’autunno, invece, il Giovanni XXIII è stato tra gli ospedali più tranquilli della regione. Il travaglio che Bergamo ha vissuto nella prima ondata sembra averla immunizzata. I dati in parte confortano questa ipotesi. In città più di un abitante su cinque è stato infettato dal nuovo coronavirus e oggi potrebbe aver sviluppato qualche forma di difesa dalla malattia. Nelle aree più colpite della provincia, il tasso di contagio arriva quasi a una persona su due.

La marea

Ma la memoria di quelle quattro settimane tra febbraio e marzo è difficile da far sparire. C’è una cifra che è diventata quasi un sinonimo di questa storia: 568 per cento. Rappresenta l’aumento della mortalità in città e provincia nel mese di marzo rispetto ai cinque anni precedenti. In altre parole, gli statistici si aspettavano circa un migliaia di decessi, ma ne hanno contati 6.238, il 568 per cento in più. Si tratta del doppio dei decessi secondo le statistiche ufficiali, poiché durante quelle caotiche settimane tra i morti per Covid-19 si contava soltanto chi riusciva ad arrivare in ospedale, lasciando fuori dal conteggio le migliaia di morti nelle proprie abitazioni o nelle case di cura. Nessun’altra città o provincia in Italia ha visto un incrementi di decessi altrettanto significativi. Secondo alcuni calcoli, nessun’altra città di dimensioni comparabili ha mai vissuto qualcosa del genere nell’ultimo secolo.

Ma non sono soltanto i freddi numeri ad aver fatto conquistare a Bergamo un ruolo tristemente simbolico. Tutta la Lombardia meridionale ha sofferto quasi altrettanto, da Cremona a Brescia, fino a Piacenza, in Emilia-Romagna. Una parte significativa l’ha avuta anche il modo con cui l’epidemia si è sviluppata ed è stata gestita in città.

È una storia che sembra uscita dalla sceneggiatura di un blockbuster catastrofico: un paziente scoperto positivo dopo giorni trascorsi in un ospedale affollato con precauzioni minime. La chiusura dell’ospedale e poi la sua misteriosa riapertura. Una città nel panico, giorni di attesa per una quarantena che non arriva. E poi il diluvio.

Un dirigente del servizio emergenza ha paragonato l’enorme numero di chiamate che tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo sono improvvisamente piovute sul suo centralino a un bombardamento.

Ma sono le metafore idriche quelle che hanno conosciuto la fortuna maggiore. Il presidente dell’ordine dei medici ha detto che è stato come vivere un disastro del Vajont a settimana, per un mese. Il vescovo di Bergamo ha parlato di un nubifragio, un medico intensivista del Giovanni XXIII di uno tsunami.

Altre immagini di quei giorni si sono fissate in modo indelebile nella memoria collettiva. Le chiese che smettono di suonare le campane, i convogli di veicoli militari usati per portare via le bare, i sacerdoti che vanno davanti ai cancelli degli ospedali per dare notizie ai parenti dei loro cari ricoverati, i paesi in cui ogni famiglia ha un conoscete o un parente che è venuto a mancare.

I racconti

Così Bergamo non ha mai smesso di attirare attenzione. Questa settimana Jason Horowitz ha dedicato alla città un lungo articolo sul New York Times, ricostruendo come una catena di errori burocratici, interferenze politiche e incompetenza, abbia contribuito a far andare fuori controllo l’epidemia in città.

I giornalisti del Corriere della Sera Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini hanno ricostruito meglio di chiunque altro cosa avvenne nelle ore chiave del 23 febbraio nell’ospedale di Alzano Lombardo. Riccardo Iacona ha raccontato l’esperienza dei medici della città e Francesca Nava si è concentrata sulla reazione incerta e contraddittoria del governo regionale e delle associazioni degli imprenditori. Il sindaco Giorgio Gori, insieme al giornalista Francesco Cancellato, ha raccontato la sua esperienza in un libro. Molti di loro sono stati aiutati da Isaia Invernizzi, l’instancabile cronista dell’Eco di Bergamo, da poco passato al Post, che è stato tra i primi ad accorgersi dell’anomala mortalità nella sua città e di come le statistiche ufficiali non rivelassero l’entità della strage che si stava consumando.

Una nuova epoca

Tutto questo, probabilmente, non è ancora abbastanza. Bisognerà scrivere ancora pagine di storia e di cronaca di quello che accaduto. Giornalisti e magistrati indagheranno a lungo su quello che è accaduto e sulle responsabilità di chi ha gestito l’epidemia. Molto altro dovrà essere scritto da sociologi, storici ed economisti. Pagine dovranno essere dedicate a raccontare come la comunità ha reagito a questa prova. Cosa cambierà nella società. Quali storture saranno corrette tra quelle che hanno favorito il diffondersi della malattia e quelle che invece la pandemia ha fatto emergere. Quali virtù ne risulteranno esaltate, quali vizi verranno radicati.

La storia di Bergamo continua a rimanere così attuale perché rappresenta un avvenimento unico, uno scorcio, un’anticipazione di una nuova epoca. Il mondo felice che poteva permettersi di considerare le malattie un pericolo del passato è alle nostre spalle, se mai è esistito davvero. Quello che Bergamo ha visto a marzo non è un’eccezione. La seconda ondata non sarà l’ultimo colpo che riceveremo dal coronavirus. E il coronavirus non sarà l’ultimo essere microscopico a fare il salto da un animale esotico nella specie umana. Su questo non abbiamo alcun potere: è accaduto e accadrà di nuovo.

Sarebbe stato differente se l’epidemia avesse colpito con quella violenza una grande metropoli, magari lontana e anonima. Se si fosse accanita su una comunità già povera e deprivata. Invece ha colpito una città di provincia, una delle più ricche, una delle più coese socialmente. Una città modello di un certo modo di intendere il nostro tempo e la nostra società, fatta di piccole aziende familiari e di medie imprese in grado di competere sui mercati internazionali, con un grande aeroporto che la collega al resto del mondo, animata da un reticolo di commerci e di contatti, sorretta da un austera etica del lavoro.

Ecco perché Bergamo continua a restare nel nostro immaginario ancora oggi e perché è importante che ci resti. Perché ci mette di fronte crudelmente al fatto che la versione migliore dei nostri modelli sociali ed economici è proprio quella che ci rende così straordinariamente vulnerabili al ritorno di un antico pericolo. I bergamaschi possono essere giustamente felici di non essere più i protagonisti di questa storia tragica. Ma di Bergamo e di quello che hanno vissuto i suoi abitanti dovremo parlare ancora. Possiamo fare sì che la marea che ha travolto Bergamo sia l’ultima a cui permettiamo di sommergere una comunità del tutto impreparata ad accoglierla. Per farlo, però, dobbiamo continuare a raccontare quello che è accaduto a in quelle quattro settimane di primavera.

 

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