Non si possono scegliere le vittime a proprio piacere, tralasciandone altre. Le vittime sono vittime e basta, soprattutto quando sono tra le più deboli e fragili, come i bambini, i vecchi, le donne, le ragazze. L’uccisione violenta di Giulia Cecchettin ha risvegliato nella nostra società un giusto sdegno per una morte così assurda e atroce.In tanti si interrogano su come fare per educare i maschi alla fine della violenza sulle donne, al feroce senso di possesso che spesso maturano nei loro confronti tanto da non sopportare un qualunque rifiuto.

Ma poi non si riesce a uscire del tutto dagli schemi mentali (ideologici o emozionali) che spingono le persone a schierarsi con alcune vittime e non con altre. Accade che le israeliane uccise o stuprate il 7 ottobre siano “dimenticate” mentre si ricordano le palestinesi uccise dalla ritorsione di Israele. Alcuni commentano: «Ma cosa c’entra Gaza con Giulia?».

In realtà c’entra perché corrisponde a un modo di ragionare: scegliersi le vittime che più si preferiscono, sottovalutando le altre. Si tratta della logica – tutta maschile – del nemico. Dividere il mondo tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, innocenti e colpevoli, così da giustificare o attenuare la violenza commessa sui secondi, è un tipico ragionamento maschile, binario e semplificato. È la logica della guerra, anch’essa un’attività prevalentemente maschile.

Le donne in genere stanno da un’altra parte, quella dei sofferenti. Sul campo di battaglia di Solferino le donne lombarde raccoglievano feriti e moribondi dicendo “tutti fratelli”, come ricorda nelle sue memorie Henri Dunant, il fondatore della Croce rossa. Descrivendo la tragedia della Seconda guerra mondiale, Anna Bravo definisce le donne come «le titolari quasi in esclusiva della manutenzione della vita».

Non è una concezione “tradizionale” del ruolo delle donne come qualcuno potrebbe pensare (con un ragionamento tipicamente maschile). Si tratta invece di un messaggio fondamentale: si può vivere senza violenza, cioè senza nemici. L’ossessiva ricerca del nemico è un mestiere da maschi, a cui purtroppo anche in molte possono soccombere. Al contrario “la manutenzione” della vita rappresenta l’umano irriducibile: per le donne la vita è la cosa più preziosa. Distinguere tra vittime, come Maya, Emily e Emma violentate, rapite e fatte sfilare a Gaza tra sputi e umiliazioni, e le donne palestinesi sotto i bombardamenti, non appartiene alla nostra civiltà democratica: la protezione deve essere per tutte, cioè per tutti.

Anche le donne rasate a zero e umiliate perché stavano con nazisti o collaborazionisti sono state vittime di violenza. Nella cultura del diritto delle democrazie non ci può essere differenza tra vittime, non si può fare una gerarchia della sofferenza o classifiche del dolore. La logica dello schieramento è bellicista, maschilista, e produce ingiustizia. Stilare una graduatoria del male fabbricando una macabra contabilità dei morti è immorale e disonesto, perché rafforza la dialettica della vendetta e moltiplica il ciclo della violenza. Pensare che tutto accada meccanicamente mediante un ingranaggio di causa-effetto è un pensiero micidiale e totalmente maschilista, nel senso di bellico.

Dovremo prima o poi arrivare a dirci sinceramente che il tanto citato articolo 11 della nostra costituzione (l’Italia ripudia la guerra…) non è una clava contro qualcuno, ma nasce da una consapevolezza maturata nella fornace del conflitto mondiale: l’Italia democratica non ha nemici, né potrà più averne. Prima di quel momento l’Italia aveva scelto di avere dei nemici, ma con la costituzione repubblicana decise di correggersi. È un dono che ci viene fatto dagli uomini e dalle donne della Costituente.

Non avere nemici significa accogliere la sofferenza di ciascuno senza compilare categorie tra le vittime, senza preferirne alcune piuttosto che altre, senza parlare delle prime tacendo le seconde. Si trattò di una vera conversione nazionale: non avere nemici significò abbattere le ragioni di qualunque odio o egoismo, per accettare come sola regola quella del soccorrere e del convivere. Volle dire anche comprendere le ragioni storiche di un conflitto o di una contesa, senza condannare o partecipare a tifoserie, adepti di interpretazioni competitive. Esprime la volontà di raccogliere tutte le lacrime, per dare un senso alla pace della convivenza.

Non è cosa facile né corrisponde a uno sguardo freddo, neutrale, non empatico: i bombardamenti su Gaza e l’idea celata dietro i bulldozer (andatevene via per sempre!) non possono che farci inorridire, così come l’atrocità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Non serve metterli sulla bilancia e pesarli, per capire da che parte stare: l’Italia sta dalla parte delle vittime, sempre. Le manifestazioni di questi giorni sono dalla parte delle donne, tutte le donne senza esclusione, vittime della violenza di maschi predatori e padroni.

Ogni ragionamento competitivo nasconde un’impronta maschile: la ricerca del nemico, la sfida, il duello, l’odio, il sangue e la morte. Ogni violenza commessa rappresenta qualcosa di irreparabile, come lo è l’assassinio di Giulia che ferisce tutta la società e la sfigura. Dobbiamo sentirlo sulla nostra pelle. Allo stesso tempo dobbiamo provarlo a livello globale a causa delle violenze a Gaza: un mondo sfigurato e deturpato. L’unica risposta valida è stare dalla parte delle vittime senza fare distinzioni. La sofferenza che vediamo non può essere ridotta a categoria ideologica, ma deve essere considerata reale: carne vera che possiamo e dobbiamo toccare, curare e alla fine abbracciare.

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