Il Covid, l’invasione russa dell’Ucraina, le tensioni geopolitiche legate all’allargamento della sfera di influenza cinese in Asia e nel mondo, e il generale ritorno al nazionalismo hanno innescato un’inversione della globalizzazione che espone i paesi europei, più di altri, a dei rischi dovuti alla loro struttura economica e modello di crescita.

Esemplare il caso della Germania che ha costruito il proprio successo puntando proprio su un modello mercantilistico per avvantaggiare esportazioni e la sua industria, sfruttando l’ “esternalizzazione” resa possibile dalla globalizzazione. Un modello che la de-globalizzazione ha messo in crisi; e che peraltro l’Italia ha emulato anche se su scala minore e con minor successo. 

La Germania ha esternalizzato alla Russia l’approvvigionamento di energia a basso costo, e oggi è a rischio razionamento senza avere una vera politica energetica; ha esternalizzato la produzione di componenti alla Cina e ora paga la disfunzione delle catene di produzione e i nuovi rischi geopolitici; ha sostituito la domanda interna da consumi con le esportazioni, specie verso la Cina, che ora da cliente sta diventato uno dei principali concorrenti per la sua industria; ha esternalizzato la tecnologia a Silicon Valley; la finanza alle banche straniere, e il capitale di rischio ai fondi di private equity e a Wall Street, avendo un sistema bancocentrico, e molto poco efficiente.

Il problema semiconduttori

Il primo rischio della de-globalizzazione per l’Europa si chiama semiconduttori: è l’input chiave di quasi tutto ciò che produciamo e utilizziamo (auto, lavatrici, internet, rete elettrica, computer, robot, macchinari, banche, servizi).

L’Asia controlla l’80 per cento della loro produzione e Taiwan domina il segmento di quelli più sofisticati. Gli americani, che i semiconduttori li hanno inventati, si sono concentrati sulla progettazione, ricerca e sviluppo, esternalizzando la produzione in Asia (riducendo dal 37 al 12 per cento la loro quota mondiale di produzione), esponendosi così a evidenti rischi geopolitici, specie tenuto conto della determinazione Cinese di annettere Taiwan.

È così partita una corsa alla produzione, che il Congresso Usa finanzia con 54 miliardi, per la costruzione di 12 “fonderie” (cioè fabbriche di semiconduttori) nei prossimi tre anni.

Ma l’Asia non sta a guardare, si stima con 19 nuove fonderie solo a Taiwan e ben 31 in Cina, senza contare Corea e Giappone. Anche in Europa i governi hanno deciso di finanziare siti produttivi, e abbiamo imprese competitive nel settore (come, per esempio, la italo-francese STm o l’olandese Asml, leader nelle macchine per la produzione) ma la dimensione degli investimenti pianificati non è paragonabile.

Soprattutto, in Europa manca la percezione della rilevanza strategica dei semiconduttori. Per esempio, trovo significativo che nel Pnrr si enfatizzi la digitalizzazione, il cloud pubblico, le smart grid, le reti ferroviarie e le rinnovabili, ma nessuno si chieda dove si produca la tecnologia che ne costituisce l’elemento essenziale.

Inoltre, la produzione dei semiconduttori è importante, ma ancora di più lo sono la progettazione e lo sviluppo, che presuppongono un’industria tecnologica, trainante negli Usa e in Cina, ma che in Europa è sottodimensionata: il settore costituisce il 30 per cento della capitalizzazione della Borsa americana, 31 di quella cinese, ma appena il 9, o 12 a seconda degli indici, dell’Eurozona.

La transizione energetica dopo la guerra

Il secondo rischio sono le implicazioni della transizione energetica, esacerbate ma non esaurite dalla guerra in Ucraina.

La transizione sarà lunga e non eliminerà l’utilizzo di energia fossile, perché la variabilità nel tempo e nello spazio di quelle rinnovabili crea inevitabili sbilanci fra domanda e offerta; e perché i motori endotermici equipaggiano ancora un miliardo di veicoli in circolazione, oltre ad aerei, impianti e navi: e se, da una parte, le auto “ibride” attuali rappresentano solo un modesto palliativo, dall’altra non esiste ancora una chiara, e realistica, alternativa energetica per impianti industriali e trasporti aerei e navali. 

Avere definito una data obiettivo per la transizione verde, come ha fatto l’Europa, ha avuto una grande valenza politica e l’effetto, immagino voluto, di incentivare le imprese del settore energetico occidentali a tagliare gli investimenti e ridurre la capacità. Senza però avere un piano articolato per raggiungere l’obiettivo.

Allo stesso tempo le forniture di combustibili fossili rimangono esternalizzate: dalla Russia al Quatar, Algeria, e Stati Uniti per il gas Lng.

Ovvero l’Europa continua a preferire l’esternalizzazione rispetto a sviluppare le risorse disponibili a casa propria (divieti alla tecnologia shale, allo sfruttamento dei giacimenti di gas, no al nucleare) anche se la quantità di emissioni nel mondo non cambia; ma forse salva la coscienza ambientale.

Il taglio degli investimenti nel settore energetico fa però aumentare la volatilità dei prezzi dell’energia perché a fronte degli spostamenti della domanda, l’offerta è rigida e si contrae.

La volatilità è poi ingigantita dai rischi geopolitici impliciti nell’esternalizzazione. Covid e Russia ne sono un esempio: il presso del greggio (Brent) è crollato a 18 dollari al barile durante la pandemia, per poi superare i 100 con la ripresa economica e l’invasione russa dell’Ucraina.

La guerra in Ucraina finirà, ma resteremo sempre esposti alla volatilità dei prezzi, che sia dovuta a shock della domanda o rischi geopolitici. 

Nessuno però aveva messo in conto che questa volatilità è socialmente insostenibile. Il dibattito e le frizioni tra i paesi europei su schemi di price cap, di stoccaggio comune o di razionamento in caso di emergenza, e la mancanza di coordinamento nella diversificazione degli approvvigionamenti, evidenziano impreparazione e improvvisazione.

Così i governi europei cercano di ricorrere a regimi di prezzi di fatto amministrati ritenuti indispensabili per mantenere il consenso, ma che sono incompatibili con l’attività delle imprese del settore a cui spetterebbero però i massicci investimenti necessari per la transizione ambientale: la decisione francese di nazionalizzare Edf, la principale società elettrica del paese, o il salvataggio pubblico di Uniper, primo fornitore tedesco di gas, ne sono un esempio eclatante.

Che succede all’auto

Un altro esempio viene dall’industria automobilistica. Il termine posto dall’Europa per la fine della vendita di auto a motore endotermico ha imposto alle imprese del settore una rapida inversione di rotta, che ha accentuato l’esternalizzazione perché in Europa non si producono batterie, semiconduttori e metalli che invece sono la componente di maggior valore di un’auto elettrica; ma esponendo in questo modo un’industria trainante ai rischi della de-globalizzazione.

Inoltre, l’auto elettrica ha molti meno parti e componenti, il che genererà esuberi e crisi nell’indotto. L’amministratore delegato di Volkswagen, chiamato proprio per guidare la transizione elettrica, è stato recentemente costretto alle dimissioni dai rappresentanti dei sindacati e dello Stato della Bassa Sassonia che siedono nel consiglio di amministrazione, per aver dichiarato che il passaggio all’elettrico della Volkswagen costerà alla Germania 30.000 esuberi: cosa che tutti sanno, ma nessuno vuole sentirsi dire.

In tutto questo trovo diverse analogie con le politiche degli anni Settanta e Ottanta, i più difficili del dopoguerra, dai quali si uscì proprio grazie alla globalizzazione degli anni Novanta. Un’esperienza che andrebbe rivisitata, e non solo per l’inflazione.

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