«Non esiste e non è mai esistita una guerra pulita» afferma il teologo Severino Dianich che attraversò il dramma dell’Istria durante e dopo l’ultima guerra, incluse le foibe e la fuga dei giuliano-dalmati. «Non posso frenare l’indignazione – aggiunge – quando sento deplorare le bestiali crudeltà che il “nemico” sta commettendo. A mio parere un modo ignobile per propagandare l’idea che esista una guerra accettabile».

La guerra è sempre una bestialità che deturpa chi la fa, anche se aggredito o in stato di legittima difesa. Come si può giustificarla? È questa l’inquietudine di tanti umanisti, laici e credenti. La guerra come “mezzo inaccettabile” è diventata una costante del magistero papale fin da Benedetto XV il quale criticò «l’inutile strage» della Prima guerra mondiale e non fu compreso dalle chiese cattoliche nazionali della sua epoca.

Per la chiesa di Roma ogni conflitto assume la caratteristica di una guerra civile: fratelli che uccidono fratelli. Il valore della vita e della persona viene considerato superiore anche a valori civici rispettabili come l’amor patrio o alla salvaguardia della propria nazione. È una questione che si sono posti e continuano a porsi i cattolici davanti ai conflitti di aggressione o di legittima difesa.

Per converso, e in tutt’altro modo, è la medesima tensione che sta vivendo l’ebraismo democratico odierno: come restare attaccati all’identità ebraica di Israele senza tradire gli ideali democratici e pluralisti e senza optare per lo stato etnico? All’Accademia del Lincei il cardinal Pietro Parolin ha autorevolmente dichiarato che per la Santa sede: «La guerra non è più uno strumento lecito dell’azione internazionale».

Gaza e Ucraina

Un’affermazione non sempre accolta all’interno della chiesa cattolica (e ancor meno nelle chiese orientali) ma che si fa progressivamente largo nelle coscienze di molti: la guerra non è lecita perché rappresenta un’inutile ingranaggio obsoleto che aggrava i problemi invece di risolverli. Come si fa a dirimere tale dilemma resistendo alla tentazione delle passioni?

Edgar Morin parla di «resistenza dello spirito». «Saper resistere – scrive – all’intimidazione di tutte le menzogne e al contagio di tutte le ubriacature collettive. Non cedere al delirio della responsabilità collettiva di un popolo o di un’etnia». Gli fa eco lo scrittore israeliano Etgar Keret: «Nessuna delle nostre battaglie conduce a un esito decisivo: le guerre non si vincono più. E ci ritroviamo ancora una volta tutti perdenti».

Ciò a cui assistiamo con gli attuali conflitti in Ucraina o a Gaza (ma anche in Africa) è un totale svuotamento dello spirito umano allorquando si fa ghermire dalle emozioni belliciste, un’eccitazione che offusca la mente e rende debole il pensiero.

La sofferenza non ha nazionalità

Di conseguenza non sembra che esista una ragionevole soluzione alle contese e alla fine tutti assumono il vittimismo come linguaggio dicendo sempre la stessa cosa: “È il nemico ad aver voluto la guerra, è lui il solo responsabile, noi siamo stati costretti”. Lo affermano sia l’aggressore che l’aggredito, in uno scambio continuo di ruoli consentito dalla nebbia della ragione e nella più totale confusione dei valori umani.

Come scriveva Pavel Florenskij nel 1937: «Nell’uomo c’è una carica di furore, d’ira, di istinti distruttivi, di odio e di rabbia, e tale carica tende a riversarsi sulle persone circostanti. Nelle guerre l’uomo si lascia prendere dal furore per la pura brutalità».

Solo toccando con mano la carne umana insanguinata per la crudeltà del combattimento si può capire che la sofferenza non ha nazionalità, ma a quel punto è già tardi. Significativa la testimonianza di una ex combattente della Grande guerra patriottica resa a Svetlana Aleksievic, la premio Nobel bielorussa che tanto ha scritto sulla guerra: «Ho fatto anch’io una mia guerra. Ho percorso un lungo cammino in compagnia delle mie eroine. Come loro, per molto tempo non ho voluto credere che la nostra “Vittoria” avesse due volti, uno di grande bellezza e l’altro deturpato dalle cicatrici di un insostenibile orrore».

«Dopo la guerra la vita umana ha perso ogni valore» racconta un’altra testimone: l’anima sfigurata di un popolo travolto dal conflitto ha molta difficoltà a riprendersi, come se fosse inquinata da un veleno che non passa. Ogni guerra lascia l’aria contaminata da un’epidemia di inimicizia.

Dobbiamo stare attenti di non intossicarci già ora con razzismi, egoismi e pregiudizi vari che degradano menti e cuori preparandoli al conflitto. Ecco perché ci è necessaria una ripresa dello spirito europeo delle origini che ora sembra attenuarsi: dobbiamo essere consapevoli di quanto ciò sia necessario e indispensabile se vogliamo garantire un futuro di pace alla generazione che viene. Contro ogni rassegnazione è sempre l’ora della ricerca di una «pace creativa», come chiede papa Francesco, prima che accada l’irreparabile.

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