Forse per la sinistra è arrivata l’ora di riconciliarsi con le proprie radici. Considerando i temi di discussione aperti dall’attuale crisi economica e sociale, ad esempio, sarebbe opportuno rileggersi chi ha dedicato la vita a riflettere sulle diseguaglianze sociali in rapporto a risorse e mezzi di produzione. Peccato che Karl Marx sia poco popolare sui social e anche Saint-Simon, Gramsci e Don Sturzo non prendano molti like dalla politica contemporanea.

Possiamo vedere quanto gli ideali e gli idealisti siano fuori moda analizzando i provvedimenti a sostegno dei meno abbienti in discussione nella legge di bilancio italiana, con i ‘pendant’ dei relativi emendamenti presentati dall’opposizione.

Destra e sinistra sembrano avanzare proposte molto diverse e, a seconda della loro prospettiva, anche con una logica ragionevole, ma l’approccio di fondo è il medesimo: fare in modo che le persone bisognose abbiano un sostegno economico, in forma di deregulation o di aiuto diretto, immediato e senza troppi intermediari.

In tempi di crisi queste sono sicuramente soluzioni utili, ma il sospetto è che, per aiutare davvero a costruire una società che tuteli i deboli, anche in un momento di emergenza, strumenti tecnici come questi non siano sufficienti.

Il rischio, infatti, è quello di trasformare quei soggetti che ne hanno più bisogno in una “massa” di tante individualità indistinte, senza la minima soggettività politica.

Eppure il giovane disoccupato, il lavoratore che vede la fabbrica fallire, la coppia che non concilia asilo nido e stipendio, il pensionato che non può più pagare il gas, un tempo sarebbero state parti diverse di un sistema distinto e ordinato.

Li avrebbe supportati una rete composta da sindacati, consigli di fabbrica, cooperative di assistenza e decine di altre istituzioni legate alla politica che, oltre a occuparsi delle loro necessità, li avrebbero resi consapevoli del proprio ruolo, della propria responsabilità e delle potenzialità che potevano esprimere nel progettare il cambiamento della società verso cui aspiravano.

Un sistema, nato proprio dai sogni di quei grandi pensatori oggi così snobbati, che aveva il compito di trasformare i singoli cittadini con bisogni particolari in parti collettive e attive di quella stessa politica che legifera su di loro.

Dare un nome

E’ un compito che la sinistra dovrebbe conoscere bene, perché storicamente, oltre alla sfida per supportare le categorie in difficoltà, ha sempre avuto la funzione culturale di cristallizzarle, dando loro un nome, prima ancora che una voce.

Un compito oggi fondamentale in una società diventata sempre più liquida, dis-integrata e individuale. Con meno operai e braccianti, ma fatta comunque di persone le cui necessità possono essere connesse da un desiderio di cambiamento che ha bisogno di essere riconosciuto e organizzato.

Certo, nel momento in cui arrivano i conti sarà difficile spiegargli che, oltre al denaro per pagarli, è importante anche la loro partecipazione alla costruzione di una visione alternativa del futuro.

Ma è l’unica strada percorribile dalla sinistra se non vuole essere scalzata da forze molto più brave a corteggiare “la massa”: il populismo assistenzialista, l’“elitismo” economico dei tecnici e, naturalmente, la stessa destra che ha saputo integrare la parola “sociale” all’interno dei suoi valori di sicurezza e di nazionalismo.

E’ un impegno in cui è in gioco non solo la sopravvivenza di una parte politica, ma anche della stessa cultura della democrazia, che ha continuamente bisogno di utopie e di visioni nuove per continuare a crescere. Soprattutto in tempo di crisi, perché è vero che con i sogni oggi non si pagano le bollette, ma sono ancora l’unica energia creatrice capace di mettere in moto il mondo di domani.

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