È probabile che questa seconda settimana dei Mondiali di calcio in Qatar si concentrerà molto di più su quanto avviene in campo che sui diritti civili al di fuori di esso. La palla è tonda, come argutamente notava un famoso filosofo tedesco, e anche l’attenzione dell’opinione pubblica tende a compiere veloci ribaltamenti di campo. Stavolta non è solo questione di volubilità: ogni volta che noi rappresentanti del pensiero occidentale ci troviamo a guardare negli occhi paesi “non allineati” alla nostra etica ci ritroviamo smarriti. Così adesso ci pare più interessante osservare cosa combinano i piedi dei giocatori dell’Arabia Saudita, dell’Iran o del Qatar piuttosto che riflettere su cosa accade sotto le loro bandiere.

Del resto che soluzioni possiamo attenderci dal confronto tra noi e queste realtà? Possiamo ignorare le loro contraddizioni nel nome del realismo predicato dalle relazioni internazionali, lo stesso che ci permette di fare affari anche con nazioni che eliminano giornalisti e incarcerano studenti. Oppure boicottarli in nome di un idealismo che rischia però di isolarci. Oppure ancora incoraggiare li loro contatto con la democrazia liberale, immaginando che basti ciò a cambiarli. Una visione, quest’ultima, sempre più considerata utopistica: è dalle Olimpiadi di Monaco del 1936 che ogni tentativo di esportare la democrazia attraverso lo sport o le sfilate di moda non riscuote troppo successo.

Un sodalizio finito

L’imbarazzo che proviamo in uno stadio climatizzato di Doha o in una regione piena di resort di lusso, ma sprovvista di seggi elettorali, è il prodotto della nostra cultura. A partire da Max Weber e Adam Smith, ci siamo persuasi che capitalismo e libero mercato andassero di pari passo con democrazia e stato di diritto.

Peccato che la fine della Guerra Fredda e 30 anni di conflitti locali abbiano sparigliato molto quel sodalizio, così che oggi ci troviamo a dover accettare alleanze politiche ed economiche con chi ha valori opposti ai nostri, e farci carico della contraddizione. I nuovi blocchi, nati dalla fine dell’unipolarismo, hanno dinamiche così complesse – dalle proteiformi coalizioni di Europa e Turchia nella guerra civile libica, alla Cina che ospita il vertice dei Brics – che è difficile tracciarne i nuovi confini.

Cercare di comprendere perché realtà come il Qatar abbiamo voluto i Mondiali non è dunque relativismo: è prendere atto della molteplicità di questo sistema. È facile intuire come in questo nuovo ordinamento le scelte saranno sempre più nelle mani di chi percepiamo come “altri” ed è con loro che dovremo parlare. Ma fintanto che il soggetto delle nostre proposizioni rimane sempre il “noi”: accettiamo, boicottiamo, incoraggiamo…, difficilmente potremo far avanzare il dialogo. Piuttosto che ragionare su che verbo usare, dovremmo riflettere sul soggetto della frase e capire come allargarlo.

Interlocutori e valori

Ora, anche se i Mondiali del Qatar sembrano interessare più i tifosi che gli attivisti, abbiamo comunque l’occasione per svegliarci dall’illusione di essere gli unici attori del nostro mondo. A casa nostra abbiamo l’obbligo di prenderci cura dei nostri valori, ma è ora di comprendere che c’è un limite circa la nostra possibilità di influenzare gli altri.

Ed è proprio quel limite che dovrebbe farci smettere di chiedere con quali interlocutori vogliamo confrontarci e quali no, e piuttosto cominciare a domandarci su quali valori e principi. Una volta chiarito questo sarà anche più facile stabilire, insieme agli “altri”, cosa si è disposti a concedere e cosa è invece irrinunciabile, anche a costo della vita.

Del resto in un torneo mondiale non si può decidere contro chi giocare, ma, solo dopo aver stabilito delle regole precise, può cominciare la partita. Così, anche se la palla è tonda, sarà più facile per tutti accettare il risultato.

© Riproduzione riservata