Così sono finito nella lista nera di Mosca per aver oltrepassato il confine per lavorare a un reportage sulla situazione dei civili russi nel territorio occupato dagli ucraini. Ma a pagare il prezzo più alto per il “ritiro” della stampa dai fronti di guerra sono i civili
Venerdì 27 settembre la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha scritto che sarò presto inserito nella lista dei ricercati dal governo russo. Il reato che ho commesso è l’ingresso illegale nella Federazione russa, poiché questa settimana mi sono recato nella regione di Kursk, territorio russo occupato dai militari ucraini, dove ho realizzato per Domani un reportage sulla situazione dei civili russi.
Il mio nome si aggiunge così alla lista che include la collega Rai Stefania Battistini, il suo operatore, Simone Traini, e numerosi altri giornalisti ucraini e internazionali che dal 6 agosto hanno visitato la regione.
L’ipocrisia è lampante. Dozzine di giornalisti russi e internazionali visitano quotidianamente i territori occupati dell’Ucraina, senza certo chiedere il permesso alle autorità di Kiev. Perché, dunque, queste intimidazioni? Di certo il Cremlino vuole che si parli il meno possibile dell’incursione di Kursk, la prima invasione del territorio russo dal 1941, per Putin l’ennesima umiliazione di questa guerra che andava vinta in tre giorni.
Ma cerchiamo anche di non sovrainterpretare queste minacce. Questi due anni e mezzo di guerra dovrebbero averci insegnato che non tutto ciò che esce dal Cremlino è frutto di raffinate elaborazioni machiavelliche.
Le conseguenze dirette, per noi finiti in questa lista, sono limitate. Non potremo più viaggiare in Russia e nei paesi a essa alleati e in cui siamo a rischio di estradizione, almeno nel prossimo futuro. Ma altri effetti si sono già fatti sentire. Dopo le prime denunce pubblicizzate dal Cremlino, numerose testate italiane e internazionali hanno deciso di proibire ai loro reporter di visitare la regione occupata per timore delle rappresaglie russe.
A pagare il prezzo più alto per questo “ritiro” della stampa – ma anche delle organizzazioni umanitarie – paradossalmente sono proprio i civili russi che in quelle aree ci vivono. La presenza di testimoni, siano essi operatori umanitari, osservatori internazionali o giornalisti, è una delle principali garanzie che gli eserciti rispettino le regole di guerra. Gli osservatori da soli non bastano ad assicurare il corretto comportamento dei militari e delle altre forze armate, ma di certo i civili sono più al sicuro sotto gli occhi di un testimone rispetto a quando vengono lasciati da soli.
Sono regole che valgono per la Russia così come per l’Ucraina occupata, e per Gaza e qualsiasi altro luogo di conflitto. A volte si è verificato il problema opposto a quello a cui siamo andati incontro in queste settimane, poiché anche il governo ucraino non vede di buon occhio i giornalisti che visitano i suoi territori illegittimamente occupati.
Non facciamo false equivalenze: Kiev non ha spiccato mandati di cattura nei confronti dei reporter che hanno visitato il Donbass. Ma ci sono stati casi di accrediti ritirati, di ostacoli frapposti, di interrogatori da parte dei servizi speciali. Di conseguenza, nelle redazioni c’è una certa cautela nell’inviare i propri reporter nelle aree occupate dalla Russia, e non solo perché le limitazioni a cui si viene sottoposti sono ben altra cosa rispetto a quelle ucraine. Tuttavia, una delle conseguenze è che, ancora una volta, in quei territori occupati ci sono meno occhi a esercitare pressione, meno voci a denunciare crimini.
Se poi da questo caso presente proviamo ad allargare un poco lo sguardo, emerge il triste stato in cui oggi versa la professione giornalistica. Nei suoi reportage di guerra dal Vietnam, entrati nella leggenda del giornalismo italiano, Tiziano Terzani raccontava le sue pericolose escursioni tra i due fronti contrapposti. Le notti trascorse in remoti villaggi in attesa della guida vietcong che lo avrebbe portato nelle zone occupate dalla guerriglia, i lunghi viaggi di ritorno a Saigon, nell’area controllata dal governo del sud e dai militari americani.
Era una delle sue regole fondamentali cercare di raccontare la versione di entrambe le parti di quel conflitto. Le autorità non gradivano i suoi viaggi, ma non finì mai perseguitato per il suo lavoro. Altri giornalisti e altri tempi. Anni in cui, per tante ragioni, si viveva qualcosa di simile a un’età dell’oro del giornalismo moderno.
Oggi, noi giornalisti – senz’altro anche per nostre responsabilità – non godiamo che di una frazione di quel prestigio intangibile che ci circondava fino a qualche decennio fa. Sempre più spesso siamo considerati parti attive dei conflitti, propagandisti prezzolati da una parte o dall’altra.
Nelle nostre pacifiche democrazie, significa essere presi di mira impunemente da potenti e politici con attacchi e denunce pretestuose, come a Domani sappiamo bene. Nelle aree dove i conflitti sono armati, il rischio è quello di ricevere proiettili. Dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, 17 giornalisti sono stati uccisi mentre facevano il loro lavoro.
In meno di un anno di combattimenti a Gaza e Cisgiordania, ne sono morti 116, compresi due israeliani e tre libanesi. In un certo senso siamo fortunati che tutto ciò che è capitato a noi è stato finire sulla lista nera di Maria Zakharova.
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