La pubblicistica di un tempo parlava di due “cavalli di razza” democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Dopo il tramonto dell’era degasperiana, questi due leader hanno dominato la scena per decenni. Solo Giulio Andreotti, con le sue movenze felpate e la predilezione per le ombre e i dossier, può affiancarsi a loro, benché la sua indubbia influenza nelle stanze del potere non venne mai sostenuta all’interno della Dc con un adeguato seguito correntizio.

Perché quello che contava fino ai primi anni Novanta era il peso specifico di ciascun leader nel partito di maggioranza relativa. Nell’attuale clima di monismo conformistico all’interno dei partiti si dimentica che le tanto vituperate correnti erano luoghi di formazione e incubatori di aspiranti leader. (E meno male che c’è ancora una formazione politica, il Partito democratico, che, come hanno dimostrato i lavori della direzione di venerdì scorso, discute e si confronta, sperando che nel futuro litighi anche più apertamente – piuttosto che trattenere i conflitti sotto una coltre unanimistica).

Il cavallo dimenticato

Dei due cavalli di razza, alla fine, il ricordo di gran lunga più forte è quello di Moro. Tuttavia è stato Fanfani a modellare il partito democristiano nel corso degli anni Cinquanta. Sotto la sua guida la Dc si affranca dalla tutela delle parrocchie e del clero e diventa un partito più strutturato e  organizzato al fine di competere direttamente con il Pci; inoltre, Fanfani, ispirato dalla sua formazione cattolico-corporativa, traghetta l’Italia verso una economia mista in cui l’industria di stato giochi un ruolo importante nello sviluppo economico, e al contempo alimenti il partito di risorse economiche ed occupazionali.  

I due leader si trovano affiancati nel sostenere il progetto di apertura a sinistra nel congresso democristiano di Napoli del 1962, reso celebre dal discorso di più di sei ore con il quale Moro anestetizza la platea. Va però sottolineata una differenza cruciale tra i due leader. Ed è che Fanfani è stato alla guida della impareggiabile stagione riformista del primo governo di centro-sinistra, sostenuto dall’esterno dai socialisti; quando invece gli succede Moro, nell’ agosto del 1964, al culmine del tintinnar di sciabole provocato dalle trame del comandante del Sifar (i servizi segreti di allora) Giovanni De Lorenzo, e avallate più meno apertamente e consapevolmente dal presidente della Repubblica Antonio Segni, il governo di centro-sinistra organico perde spinta vitale. Attraverso una sapiente azione, intessuta di troncare e sopire, Moro conduce il centro-sinistra all’estenuazione.

Il fallimento di quel governo segna la storia d’Italia in maniera indelebile: la speranza di una società modernizzata in linea con i paesi europei svanisce.  Tutto quanto messo in atto dopo, nei decenni successivi, non è stato altro che un affannoso, vano tentativo di recuperare lo sviluppo mancato. Le tare odierne nascono allora: è come fosse stata bloccata la ghiandola della crescita, su ogni piano. E Moro ne porta la responsabilità.

Il riscatto nella fine

Ma proprio alla fine il leader democristiano “riscatta il suo destino”. Moro assurge ad agnello sacrificale del sistema democratico grazie alla fermezza di chi non ha ceduto al ricatto delle Br, rifiutandosi di riconoscerle come parte legittima di un conflitto.

Di fronte alla più grave crisi del nostro paese lo stato, ma soprattutto la classe dirigente della Dc, mostra una saldezza, una compattezza , una tenuta di nervi che nessuno riconosceva a quel partito.

Presentandosi all’esterno con questo volto inedito, lo stato interrompe la spirale di violenza che sta travolgendo il paese. Gli attentati e gli atti di violenza nel 1977 sono stati 1.853, il triplo di quelli dell’anno prima, e alla fine del 1978 saranno più di 2.000. L’opinione pubblica è scossa da questo stato di guerriglia permanente.  Di fronte all’assalto al cuore dello stato, la sensazione che “nessuno sia in comando della situazione” farebbe precipitare l’Italia nel caos.  

Invece, la Dc dimostra di aver ritrovato un ubi consistam. Al di là di drammi personali e lacerazioni intime, lo scudo crociato riafferma il senso del suo simbolo quarantottesco: la protezione dal nemico. E la società gli riconosce di nuovo questa funzione. La crisi verticale verso la quale il partito stava precipitando a causa di secolarizzazione e scandali viene arrestata dalla gestione dei 55 giorni della prigionia del leader democristiano. Con il suo sacrificio, la Dc guadagna un altro quindicennio di vita.  

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