In questi giorni si susseguono le anticipazioni su quello che sarà il contenuto del nuovo decreto lavoro. Tra le varie misure annunciate, dovrebbe aumentare la possibile durata dei contratti a tempo determinato e le casistiche di utilizzo. 

Naturalmente ci si riserva di leggere il decreto nel dettaglio, ma dalle indiscrezioni si prospetta un pacchetto di norme improntate alla liberalizzazione del mercato del lavoro e alla riduzione delle tutele sociali e contrattuali per i lavoratori – con un approccio che sembra ancora fermo alla trickle-down economics.

Cioè all’idea che basta garantire agibilità e ricchezza alle imprese, poi i benefici per i lavoratori seguiranno a cascata; idea che in passato non si è dimostrata empiricamente efficace e ha coinciso con un aumento delle disuguaglianze.

Controtendenza

Questo intervento peraltro appare in controtendenza rispetto alla direzione che la maggior parte dei paesi europei sta intraprendendo. La Germania ha notevolmente aumentato la soglia del salario minimo (a 12 euro l’ora); la Spagna ha varato un’ambiziosa riforma per tutelare la stabilità e qualità lavorativa; molti paesi come Regno Unito, Belgio e Islanda sperimentano la settimana corta. Persino le direttive approvate o in discussione nelle istituzioni Ue in materia di occupazione – dal salario minimo al lavoro tramite piattaforme digitali – si pongono come obiettivo il rafforzamento delle tutele per i lavoratori.

L’Italia invece si muove in direzione opposta, smantellando tutele in nome della flessibilità. Eppure, un ragionamento sulla qualità contrattuale sarebbe necessario, considerando che l’Italia è uno dei paesi Ue con il più alto tasso di lavoratori a termine e con i salari più stagnanti.

Del resto, l’ispirazione alla recente riforma spagnola è stata uno degli argomenti chiave nella vincente campagna di Elly Schlein alle primarie Pd, fondata sull’idea di ridare centralità al contratto a tempo indeterminato come forma standard di impiego.

Per portare il modello spagnolo in Italia, servirebbe stringere le causali del tempo determinato invece di espanderle, lasciando la possibilità di attivare contratti a termine solo in caso di sostituzione di lavoratori e per picchi di produzione occasionali non programmabili.

Sarebbe poi da lasciare a una contrattazione collettiva sana, cioè effettivamente rappresentativa dei lavoratori, la possibilità di determinare eventuali ulteriori causali per la temporalità e stagionalità specifiche dei settori. Per fare ciò serve una legge sulla rappresentanza, che dia finalmente attuazione all’articolo 39 della costituzione, e riduca gli effetti di dumping dei cosiddetti contratti pirata.

Non basta tuttavia agire sui contratti a termine, perché il mondo del lavoro è un complesso sistema di vasi comunicanti nel quale modificare la normativa di un determinato contratto genera effetti conseguenti su altre tipologie di contratti. Occorre pertanto un ragionamento complessivo sul panorama lavorativo italiano, che si traduce in uno sfoltimento della giungla contrattuale del mondo del lavoro, in modo che il tempo indeterminato sia effettivamente – e non solo su carta – il contratto principe, la «forma comune di rapporto di lavoro» come sancito peraltro nello stesso Jobs Act.

Abrogare il lavoro intermittente

Bisogna quindi, oltre alle causali sul tempo determinato, applicare gli stessi criteri al contratto di somministrazione per evitare che diventi un nuovo veicolo per lavoro precario. Bisogna abrogare il contratto intermittente, i voucher re-introdotti dal governo con la legge di Bilancio 2023 e la monocommittenza, che di fatto vincola tanti giovani iscritti agli albi professionali (avvocati, architetti, etc.) a un rapporto subordinato inquadrato come finta partita Iva, quindi senza alcuna tutela.

E bisogna risolvere il vulnus dei tirocini extracurriculari, in Italia bloccati nel limbo costituzionale tra regioni e governo in quanto tecnicamente formazione professionale, ma nei fatti strumento di facile abuso come lavoro a termine e quasi sempre pagato sotto la soglia di povertà assoluta.

Insomma, la direzione da intraprendere sembra diversa da quella del decreto in arrivo. Serve un cambio di paradigma sul modo in cui l’Italia approccia il mondo del lavoro, in ottica di equilibrio generale e valorizzando la stabilità complessiva del mondo del lavoro. Si tratterebbe peraltro di un beneficio per tutto il sistema paese.

La continuità occupazionale del tempo indeterminato, infatti, riducendo un eccessivo turnover dei lavoratori finalizzato a mantenere basso il costo del lavoro nel breve periodo, spinge le imprese a valorizzare di più i propri lavoratori, investendo in formazione e professionalità.

Nell’attuale fase di bassa produttività, un investimento di questo tipo sarebbe prezioso, avvantaggiando molto anche le stesse imprese nel medio-lungo periodo, sospingendone la competitività a livello generale e beneficiando, a cascata, tutto il paese.

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